In questo docudrama di Jeff Orlowski, distribuito da Netflix, esperti dell’industria mediatica analizzano gli aspetti più oscuri del mondo social, fornendoci l’opportunità di un uso consapevole del mezzo.
Distribuito in Italia a partire dal 9 settembre 2020 ed entrato in top ten già dalla prima settimana, The Social Dilemma, cattura l’attenzione degli spettatori fin dalle prime battute. La struttura del documentario prevede un’alternanza tra interviste e scene romanzate, nonché iperboliche, di una famiglia fittizia che cerca di sopperire alle dipendenze da social media. Ma siamo davvero sicuri di sapere cosa si celi dietro un semplice like, uno scrollo di pagina, una e-mail?
Ex impiegati ai piani alti di aziende come Google, Pinterest, Instagram, Facebook e Twitter, ci dicono quello che in realtà ognuno di noi dovrebbe sapere: «Se il prodotto non si paga, vuol dire che il prodotto sei tu».
La nostra attenzione, il nostro tempo sono commercializzati ed estremizzati, grazie ad un algoritmo altamente specializzato, in grado di definire esattamente il target di riferimento e proporre all’utente ciò che ritiene per esso più opportuno. Ogni elemento di questo modello imprenditoriale è stato studiato e creato per indurre a tornare online, per tenere incollate le persone ed instaurare una forma di dipendenza che nemmeno i creatori stessi, pur conoscendo i meccanismi interni, riescono ad evitare.
Si tratta di un nuovo tipo di mercato, chiamato “capitalismo della sorveglianza”, in grado di produrre triliardi di dollari attraverso una forma di tecnologia sempre più persuasiva. Tecnologia che, tuttavia, sembra aver traslato il paradigma della comunicazione, alimentando fake news, cyberbullismo, disinformazione, bisogno di costante approvazione sociale, nonostante l’obiettivo iniziale dei creatori non fosse chiaramente questo. Secondo uno dei primi investitori di Facebook, Roger McNamee, ci troviamo immersi in un globale “Truman Show”, nel quale ognuno vive la propria realtà.
Tant’è che, se provaste a scrivere su Google l’espressione: «Il cambiamento climatico è», il completamento automatico ottenuto sarebbe differente non solo in base ai dati che il motore di ricerca ha su di voi, ma anche a seconda della zona geografica in cui vi trovate. Per portare un ulteriore esempio, in Myanmar, quando acquistate un cellulare, lo stesso venditore installerà per voi Facebook, creandovi un account. Ed ancora, su Twitter, la diffusione delle fake news ha una rapidità pari a sei volte quelle vere (ricordiamo quante ne abbiamo lette in merito al Coronavirus).
Sebbene questo documentario presenti dati piuttosto significativi e drammatici, il tono provocatorio della narrazione risulta eccessivamente pessimista e disprezzante. Sarà, tuttavia, solo nel finale, lo stesso Tristan Harris, (ex esperto di etica del design digitale Google) a porre l’attenzione su un’importante riflessione: i social non sono stati creati con finalità o scopi negativi, così come il “mi piace” su Facebook è stato pensato dagli sviluppatori allo scopo di diffondere positività nel mondo e non per creare false approvazioni; il problema principale risiede, quindi, nel modello di business imprenditoriale che si è venuto a delineare, privo di regolamentazione. Secondo gli intervistati, sarebbe sufficiente tassare le proprietà in base alla quantità di dati in loro possesso, per dare loro un motivo valido per non acquisire qualsiasi informazione.
Dunque, ci troviamo davanti ad un paradigma ambivalente, utopico e distopico al tempo stesso, spetta solo a noi farne un utilizzo adeguato, sfruttando le infinite possibilità che la tecnologia può offrirci.
Elisa Bo