E SE NON CI FOSSERO PIÙ NOTIZIE SU FACEBOOK?

Del fatto che Internet abbia stravolto il modo in cui ci informiamo e, di conseguenza, il modo in cui chi si occupa di informazione lavori ce ne eravamo accorti (più o meno) tutti. La continua discesa del giornalismo cartaceo è un dato che si dà ormai per assodato, ma è sulla definizione del formato che andrà a sostituirlo che si trovano ancora pareri contrastanti e, fino a prova contraria, ugualmente validi.

Un dato innegabile riguarda l’accelerata dei social network, su cui, già prima della crisi pandemica, nel 2019, il 19,8% degli italiani faceva esclusivo affidamento per informarsi, secondo un rapporto Istat pubblicato lo scorso giugno 2020. Se la statistica di per sé non dice molto, gli eventi che nelle ultime settimane hanno alimentato il mondo dell’informazione in Australia invitano a riflettere sulla dipendenza che abbiamo sviluppato negli ultimi anni nei confronti dei social anche sotto questo aspetto.

A seguito di una guerra fredda tra le autorità anti-trust australiane e i due giganti dell’attenzione digitale, Google e Facebook, il 25 febbraio scorso è stata, infatti, firmata la legge che stabilisce che le piattaforme online debbano pagare delle tariffe per poter pubblicare contenuti giornalistici. Già quando a Canberra si era iniziato a discutere di questo tema, Google si era portata avanti stringendo accordi con il Guardian e la società di Rupert Murdoch (News Corp), i suoi interlocutori principali all’interno del paese.

Una netta opposizione si era imposta invece da parte di Facebook, che per alcuni giorni avrebbe bloccato tutti i collegamenti ad articoli di giornali sulla propria piattaforma. Così, da un giorno all’altro, il 52% di australiani che si informa primariamente attraverso i social è stato privato della possibilità di accedere a qualunque sprazzo di articolo pubblicato dalle testate giornalistiche che comparivano abitualmente sui loro feed. Proprio grazie a questa mossa, Facebook sarebbe riuscita a far pressione sul governo australiano che, alla fine, ha rivisto la bozza legislativa di quello che è stato denominato “News Media Bargaining Code”, concedendo maggiore libertà alle piattaforme nel scegliere le media company con cui allearsi.

Quello che emerge da questa storia è che i giornali si rendono conto di aver sempre più bisogno di piattaforme come Facebook o Google per rimanere rilevanti e raggiungibili dalle loro audience e che il declino di giornali che si basano su business model ormai antiquati non può essere fermato dall’intervento di governi o istituzioni. Come sottolinea Valerio Bassan, nella sua newsletter Ellissi, «c’era un tempo in cui i giornali detenevano il monopolio dall’attenzione. Se oggi le cose sono cambiate, la colpa è soprattutto loro» e non dei social network contro i quali si voleva imporre il Bargaining Code.

Al tempo stesso, l’azione di Facebook di temporanea censura di notizie dai feed ha portato politici di tutto il mondo, tra cui la vicepresidente della Commissione Europea, Margrethe Vestager, ad allertarsi. Il potere delle piattaforme, anche in ambito informativo, si è reso evidente, soprattutto vista la crescente porzione di popolazione che si informa, almeno parzialmente, attraverso i social. L’escalation australiana sottolinea le difficoltà in cui potrebbero dover presto incorrere anche i nostri governi per difendere uno dei diritti più fondamentali di cittadinanza. Ancora una volta chi ne uscirebbe sconfitto sarebbe proprio il lettore in cerca di sicurezze nel caos del panorama delle notizie e non certo Facebook o Rupert Murdoch.

Giulia van den Winkel