“Non tutti i mali vengono per nuocere”, dicevano, ma sarà davvero così? Nella speranza che lavarsi spesso le mani fosse vostra buona abitudine anche prima della pandemia, vediamo insieme cosa è cambiato in questi 366 giorni, tra social media e generatività sociale.
Partiamo dal giorno zero, dal momento in cui le basi del nostro lieto vivere sono state demolite con la stessa forza di una palla da demolizione cavalcata da Miley Cyrus. Come spiegano ampiamente Chiara Giaccardi e Mauro Magatti in “Nella fine è l’inizio. In che mondo vivremo”, l’uomo moderno si è sempre sentito invincibile. Forte del potere della scienza, sempre al suo servizio, l’uomo moderno si considera autonomo, libero e senza il bisogno di creare forme di comunità o di solidarietà con gli altri. È come una piccola isola, che agisce e si muove nel mondo spinta dai propri interessi, noncurante di ciò che accade al di fuori della propria strettissima cerchia di affetti.
Ecco, quel giorno il Covid ha distrutto tutti i castelli di sabbia che hanno sorretto le società moderne per anni: le istituzioni tradizionali – ovvero la politica, la scienza e la religione – si sono ritrovate impotenti di fronte al male dilagante; accanto ad esse, i grandi centri urbani, simboli di efficienza e di potenza, sono stati messi in ginocchio. Le persone hanno riscoperto la propria fragilità, di fronte ad una minaccia che non ha saputo risparmiare nessuno: gli anziani perdevano la vita, i giovani perdevano il lavoro e tutti perdevamo sogni e speranze. La morte, il dolore, la sensazione di urgenza hanno monopolizzato la comunicazione per un anno intero.
Proprio nel mondo della comunicazione, è nata spontaneamente una cura a questa nostra fragilità: gli influencer hanno cercato un contatto diretto con i propri seguaci, reinventandosi ogni giorno di fronte agli occhi di tutti, mentre la generazione Z, da sempre frizzante e creativa, ha sostenuto queste iniziative, condividendo contenuti e suscitando la curiosità di tutti. È nata una vera e propria alleanza tra gli utenti dei social, in uno slancio collettivo verso la reinvenzione della propria quotidianità: la partecipazione ai trend, l’utilizzo dell’ironia, così come la condivisione delle difficoltà, delle frustrazioni e delle possibili soluzioni ad esse, non erano forse un modo per sentirci tutti parte di qualcosa di grande? Non ci siamo forse spalleggiati gli uni con gli altri, mentre infornavamo pizze e condividevamo workout casalinghi? Durante il lockdown, nel momento in cui si è risvegliato in noi il bisogno dell’altro, i social media hanno saputo rispondere al bisogno di contatto, di sentirci vicini agli altri, nonostante l’impossibilità di toccarli. Questo genere di cura, è ciò che gli studiosi chiamano il percorso della generatività sociale, o della responsività, ovvero una forma di azione collettiva e ingaggiata per il bene comune, uno sforzo collettivo per uscire da una situazione di difficoltà. Grazie ad una connessione internet e ad un qualsiasi social media, abbiamo assistito alla nascita di una nuova comunità nazionale, se non addirittura globale, basata sulla solidarietà e sul conforto.
Il Covid ha messo in luce l’infondatezza delle nostre pretese di onnipotenza e ci ha resi di nuovo bisognosi del prossimo, capaci di riscoprirsi nel rapporto con l’altro, di formare una barriera ai sentimenti di rabbia e di violenza che la sensazione di angoscia avrebbe potuto provocare. Vi sembra un insegnamento da poco?