Qual è la prima cosa che vi viene in mente pensando alla pubblicità? Probabilmente la fastidiosa interruzione degli spot – televisivi e non solo. Sebbene questo modello pubblicitario tradizionale sia ancora largamente diffuso, altre tecniche molto meno invasive stanno prendendo sempre più il sopravvento, tra cui il product placement, l’advertorial e la native advertising. Inoltre, Mirriad porta quest’ultima ad un livello superiore: scopriamo di che cosa si tratta.
La tecnica del product placement non è nuova, ma sicuramente costituisce una valida alternativa alle interruzioni ridondanti a cui siamo stati abituati. Consiste nell’inserimento del prodotto da sponsorizzare all’interno di un contenuto mediale, ad esempio un programma televisivo. È una tecnica vincente perché è il contesto che fa pubblicità al prodotto senza interrompere il flusso mediale né infastidire lo spettatore. Per fare un esempio, si pensi all’inquadratura di determinate marche di alimenti in un programma come Masterchef: è il programma stesso a generare valore per quei brands.
Forma pubblicitaria più recente che si è consolidata con l’affermarsi dei social media e di determinati modelli di business ad essi correlati – come il fenomeno dell’influence marketing – è l’advertorial: un contenuto tipico dei social in cui il prodotto sponsorizzato si mescola con la linea editoriale dell’influencer che lo pubblica sul suo profilo, generalmente nelle sue stories o sotto forma di post. La capacità dell’influencer di trovare un modo divertente e originale per realizzare la sponsorizzazione risulta determinante in quanto più il contenuto sarà in linea con il suo personaggio e più la sponsorizzazione risulterà credibile. Non basta che abbia tanti followers: anche i brands devono essere bravi nel riconoscere quello in linea col proprio tone of voice e i propri valori. Così facendo potranno aumentare con più sicurezza la propria awareness su nuovi potenziali clienti che, fidandosi di quell’influencer specifico, saranno incuriositi dal prodotto e più propensi ad acquistarlo.
La native advertising può essere considerata invece come un connubio vincente di entrambe le tecniche pubblicitarie. Il suo punto di forza è quello di non essere immediatamente riconoscibile perché si amalgama perfettamente allo spazio in cui viene collocata. Un esempio? Quei contenuti sponsorizzati che è possibile ritrovare nel proprio feed di Instagram o su Facebook, ma anche su Google nel momento in cui si compie una ricerca, o ancora tra i primi risultati di un prodotto ricercato su Amazon. La scritta “sponsorizzato” c’è, ma poiché si confonde con contenuti simili non viene riconosciuta da subito e quindi il contenuto viene notato, anche se per pochi secondi. Questo è un aspetto fondamentale in quanto, di fronte ai classici pop-up di cui il web è ormai saturo, il nostro occhio ha sviluppato una resistenza: è la cosiddetta banner blindness, la cecità di fronte a quei banner pubblicitari di cui ormai conosciamo il punto in cui sbucheranno ed evitiamo, in modo quasi automatico, di guardarli. Effettivamente questo tipo di pubblicità ha perso tantissima della sua efficacia nel corso degli ultimi 10 anni: se poche sono le persone che li notano, ancora meno sono quelle che volontariamente li cliccano.
Ma quindi, qual è il ruolo della compagnia tecnologica Mirriad in tutto ciò?
Mirriad lavora sulla native-in-video advertising ovvero, come dice il nome stesso, quella pubblicità nativa che compare nei contenuti video, fondendosi col contesto. Lo fa in modo rivoluzionario perché, grazie alle intelligenze artificiali di cui si avvale, riesce a captare sia in che direzione sarà portato a guardare l’occhio umano in una determinata scena e sia l’emozione che questa susciterà. Per cui un brand che vuole essere associato ad una sensazione specifica (ad esempio ad una scena che esprime allegria, gioia e felicità) collabora con la società, la quale aggiunge il marchio in post-produzione.
Un primo esperimento fu avviato nel 2014, quando Mirriad fece un accordo con Vevo, integrando un cartellone pubblicitario di Levi’s nel video musicale di The Man di Aloe Blacc, che entrò nella top ten della classifica BillBoard Hot 100: inutile dire che le vendite del brand di abbigliamento schizzarono alle stelle.
È interessante l’aspetto dell’aggiunta della pubblicità in post-produzione perché ci lascia la possibilità perlomeno di ipotizzare una riduzione dei cartelloni e segnali pubblicitari che invadono gli spazi urbani: una problematica già sollevata dai cultural jammers, ovvero i sabotatori di messaggi pubblicitari che si oppongono all’aggressività con cui i marchi hanno invaso la sfera del pubblico, dai mezzi pubblici, alle piazze, ad interi edifici, ai siti internet, generando «un flusso di informazioni a senso unico solo perché possono farsi largo a suon di dollari», come direbbe Naomi Klein in No Logo.
Insomma, la questione etica e di legittimità è più attuale che mai: vero è che la pubblicità già si “nasconde” perfettamente nei contenuti mediali di cui fruiamo e spesso siamo meno consapevoli di quanto crediamo.
Sara Lucà