Si sa, nei mesi più caldi dell’anno vorremmo essere in qualsiasi parte del mondo fuorché a Milano che, ormai quasi svuotata del tutto, non rappresenta di certo la città più ospitale, in quanto in assenza di scogli e stabilimenti balneari.
Per alcuni CIMERS, però, Milano, ma anche l’estate e i suoi ritmi di vita meno dinamici, sono una possibilità per gli studenti fuorisede di vivere delle esperienze in città differenti dalla propria. Ecco che la mostra di David LeChapelle al MUDEC di Milano, dal 22 aprile all’11 settembre, accoglierà ancora per qualche settimana i più curiosi o gli appassionati dello stile visionario dell’artista americano.
Mentre fino a qualche giorno fa nelle sale espositive vicine si poteva prendere visione delle stampe originali di Henri Cartier-Bresson o della collezione di impronta ebraica di Marc Chagall, la mostra di David LaChapelle ricopre una posizione intermedia tra le due, dal momento che vengono esposte tra le sue più famose fotografie a tema apocalittico o salvifico.
Non è necessario conoscere il suo portato biografico e artistico prima di prendere parte alla mostra dal momento che, nel modo in cui il Museo delle Culture di Milano è solito procedere, la storia dell’artista viene accostata parallelamente a quella espressiva e, sin dall’ingresso, le opere vengono ordinatamente disposte in modo che a una domanda iniziale che lo spettatore potrebbe porsi facciano subito seguito delle potenziali risposte. Il benvenuto viene dato, infatti, da grandi pareti descrittive colorate che portano lo spettatore a riflettere sulle condizioni dell’artista e a motivare, di conseguenza, la necessità di rifugiarsi in un mondo altro a cui pensare come un modello di riferimento, in quanto lontano dall’inquinamento dell’uomo.
È proprio da uno di questi pannelli, ad esempio, che apprendiamo della sua relazione profonda e vitale con l’Italia e scopriamo il suo studio dei contributi del Rinascimento. Tutto ciò si traduce, a livello artistico, in un immaginario futuro di classicità abitato da divinità meticce per cui una fonte di speranza viene ricoperta anche dalla contaminazione, quindi dall’inclusione e dall’accoglienza dell’Altro. L’intera esposizione tende ad accompagnare lo spettatore lungo un vero e proprio percorso di fede in cui l’artista si interroga sulle cause delle sempre più frequenti apocalissi della nostra quotidianità, ne dà una visibile rappresentazione e finisce col trovare la sua risposta nel ripristino di uno stato di equilibrio.
Si susseguono varie immagini in cui si mettono in scena, tramite l’arte fotografica, i momenti in cui l’uomo viene colto da numerose catastrofi. Tra le cause che, ad esempio, recano danno al singolo o a intere comunità si annoverano l’industrializzazione di “Land Scape Castle Rock” o il diluvio universale delle serie “Deluge” e “After the Deluge” di chiara ispirazione michelangiolesca. Le rappresentazioni più religiose (o antireligiose) dell’esposizione cercano di dare una risposta a chi si chiede quali saranno le conseguenze di questi disastri e sembra quasi che la soluzione sia da rintracciare nell’equilibrio dell’umanesimo, nell’umanità che incarna il divino come nelle società tribali, la stessa umanità che ormai sembra abbandonata indistintamente alla fede come unica forma di speranza.
Se pensiamo al monito che il fotografo, diciannovenne, era solito ricevere dal celebre Andy Warhol “Fai ciò che vuoi, ma fallo bene!”, non possiamo che concludere che, tramite l’arte e la fotografia, egli sia riuscito perfettamente a rappresentare la nostra contemporaneità e a disorientare sorprendentemente spettatori di tutto il mondo e tutte le età.