LET’S MAKE IT INCLUSIVE

«Mirror, mirror on the wall, who’s the most inclusive of them all?»

Come qualsiasi utente o assiduo frequentatore del web sa, negli ultimi anni la comunicazione virtuale ha subito forti cambiamenti. Se, da un lato, la democratizzazione della comunicazione ha permesso all’hate speech di diffondersi sui social a macchia d’olio, dall’altro, la sua digitalizzazione e l’importanza sempre maggiore assunta dalla partecipazione attiva degli utenti per le imprese mediali hanno contribuito ad una maggiore sensibilizzazione nei confronti di tutto ciò che è diverso.

Di conseguenza, quasi tutti i brand hanno saputo cavalcare l’onda dell’inclusione e della valorizzazione delle diversità: da Apple a Nike, non importa quale sia il prodotto o il servizio offerto, l’importante è assumere una posizione esplicita e concreta, perché gli utenti si sono fatti severi e non hanno paura di criticare e, in casi estremi, persino abbandonare i propri brand preferiti. In questo contesto, un brutto scivolone può rivelarsi fatale. Sorprendentemente, anche la moda ha preso parte a questa rivoluzione comunicativa, fatta di campagne e iniziative più incentrate a trasmettere questa presa di posizione, che a fornire informazioni sulla qualità e sulle caratteristiche effettive dei prodotti. Il sistema moda di per sé non mai è stato particolarmente inclusivo o attento alle diversità: le accuse di razzismo e di insensibilità verso questi temi così delicati, mosse sia dall’account Instagram DietPrada che dallo scrittore e blogger Louis Pisano, sono esplose sui social che, come di consueto, hanno agito da cassa di risonanza e li hanno diffusi in lungo e largo, creando non pochi problemi alle aziende incriminate. In parte, questo disinteressamento deriva dalla natura prettamente elitaria del mondo della moda: l’Olimpo degli stilisti è composto per lo più da persone bianche, una cerchia ristretta a cui pochi possono aspirare e che si differenziano dal resto del mondo per il proprio know-how e il proprio speciale estro creativo. Coloro che riescono a fare il proprio ingresso nello scintillante mondo della moda difficilmente vengono discriminati dal resto della società, è molto più probabile che ne vengano osannati.

L’azienda che più si è distinta, dal 2015 ad oggi, è sicuramente Gucci. L’avvento di Alessandro Michele ha stravolto le regole del gioco, prendendo una posizione netta, rivoluzionaria ed esplicita nei confronti delle diversità. Il suo intervento, però, non si è limitato all’eliminazione della distinzione tra men’s wear e women’s wear e all’inclusione di modelli di diverse etnie nelle proprie campagne e sfilate, bensì ha trovato un ulteriore sbocco nella nuova campagna Gucci Beauty. Agli inizi di questo travagliato 2020, il Photo Vogue Festival si era alleato con Gucci Beauty, presentando il progetto The Gucci Beauty Glitch e invitando i partecipanti al contest a trasmettere con una fotografia la propria concezione di “unconventional beauty”. Al termine di questo scouting project su Instagram, il nome di Ellie Goldstein era sulla bocca di tutti: fotografata da David PD Hyde, la modella 18enne affetta dalla sindrome di Down è diventato uno dei volti del nuovo mascara Gucci. Urla di giubilo ed esaltazione sul web, il quale consacra e innalza Alessandro Michele a emblema dei cambiamenti sociali del nuovo millennio, paladino dell’esaltazione delle diversità.

A questo punto, la domanda da porsi è: come si evolverà questo trend dilagante di positività? Le case di moda continueranno a sfidarsi a colpi di body positivity, diversity e inclusion? E soprattutto, si tratta di un fenomeno temporaneo, limitato al bisogno di solidarietà e di sostegno che questo particolare momento storico richiede, oppure le aziende di moda lo coltiveranno fino in fondo?

Martina Forasiepi