APP DI TRACCIAMENTO: QUAL È IL CONFINE TRA ALLEATO E MINACCIA?

La pandemia di Covid-19 che sta mettendo in ginocchio il mondo intero è sicuramente una delle emergenze sanitarie più gravi che l’Italia si sia mai trovata a dover gestire, tanto più che il “nemico” che stiamo fronteggiando sembra essere così sfuggevole e quasi impossibile da controllare. Una soluzione potrebbe però arrivare dalle nuove tecnologie: anche in Italia sono infatti oggetto di studio e di sperimentazione app di tracciamento che possano aiutare nella battaglia contro la diffusione del virus, sulla scia del modello adottato dalla Corea del Sud. Un prezioso alleato o una minaccia alla nostra privacy? Abbiamo avuto l’opportunità di parlarne con il professor Ruben Razzante, docente di Diritto della comunicazione per le imprese e i media ed esperto in materia di tutela della privacy.

Il tanto discusso “modello sudcoreano” si sta rivelando vincente nel ridurre i numeri del contagio, ma qual è il prezzo pagato dai cittadini in termini di privacy e condivisione di dati sensibili?

Bisognerà impostare con chiarezza l’app, prevedendo limiti precisi nell’utilizzo dei dati ricavati dal monitoraggio dei telefonini degli utenti. La privacy delle persone può essere limitata in casi eccezionali come quello del Coronavirus, che minaccia gravemente la salute di tutti. L’importante è che si tratti di sospensioni temporanee e limitate del nostro diritto alla riservatezza. Se la soluzione che verrà adottata in Italia rispetterà determinati standard di sicurezza e chiarirà per legge (o decreto legge) le modalità di utilizzo dei dati e il limite temporale di tale utilizzo, non ci saranno problemi.

Christian Solinas, presidente della Regione Sardegna, ha annunciato che sta pensando di introdurre sul proprio territorio una modalità di tracciamento molto simile a quella coreana. Cosa comporterebbe questo esperimento per i dati sensibili degli utenti?

Se, anche su base regionale, alcuni governatori decidessero di monitorare il traffico degli utenti per periodi limitati e al fine di individuare le aree di maggior contagio e di scongiurare il rischio di una proliferazione incontrollata di casi di positività, non ci sarebbe nulla di male. Prevale il diritto alla salute. L’essenziale è che si tratti di utilizzi corretti e gestiti da un’autorità pubblica sotto la stretta vigilanza del Garante della privacy.

Secondo quanto riportato dal Washington Post, il governo USA si starebbe confrontando con compagnie tecnologiche del calibro di Google e Facebook per usare, in forma anonima e aggregata, i dati di geolocalizzazione raccolti dagli smartphone per mappare la diffusione del virus. Al momento le autorità assicurano che i dati delle singole persone non verranno condivisi, ma è davvero così semplice?

La raccolta dati in forma anonima e aggregata è consentita dalle leggi europee in materia di privacy e anche da quelle statunitensi, che si rifanno molto al modello europeo. Sul fatto che poi i colossi del web non facciano di quei dati un uso distorto e in violazione della privacy degli utenti bisognerà vigilare accuratamente senza abbassare la guardia.

Google sta valutando l’ipotesi di seguire il modello usato per mostrare i tempi di attesa nei ristoranti e i dati sul traffico in tempo reale su Google Maps per determinare l’impatto del distanziamento sociale. È una soluzione che potrebbe funzionare, mantenendo la privacy degli utenti?

Sui servizi di geolocalizzazione introdotti da Google il Garante della privacy si è pronunciato in più occasioni, richiamando il colosso di Mountain View ad applicare precise cautele per tutelare la privacy degli utenti. C’è da sperare che anche in questa circostanza, qualora venisse adottata una soluzione del genere, i vertici di Google si dimostrino altrettanto sensibili e ligi al rispetto della normativa vigente.

Giorgia Guarnieri