Qualche mese fa Spotify è stato al centro dell’attenzione mediatica per via della decisione aziendale di bloccare tutti gli account Premium “craccati” che illegalmente, senza il pagamento dell’abbonamento mensile, permettevano l’accesso a uno streaming di musica illimitato e ininterrotto dalle pubblicità. Questa mossa, molto probabilmente finalizzata a “ripulire” l’immagine di Spotify agli occhi degli investitori, ha infiammato il web, soprattutto i fruitori della versione craccata.
Consci, o meno, del fatto che pochi giorni dopo sarebbe stata disponibile su internet una nuova versione craccata dell’app, gli utenti si sono scatenati sui social con insulti e imprecazioni rivolti all’azienda. “Non è possibile pagare 10 euro al mese per della musica”, “Un’app fantastica ridotta in poltiglia. Sputatevi in faccia” e “Siete anche convinti di aver fatto la furbata, non siete solo ladri ma fate pure pena” sono tra gli attacchi più pesanti. È curioso il fatto che Spotify venga accusata di furto proprio da persone che il furto lo commettono tutti i gironi accedendo alla versione Premium senza pagare l’abbonamento. Quei “10 euro al mese” per avere accesso illimitato a milioni di brani è il prezzo, giusto o sbagliato che sia, che consente in primis all’azienda di erogare il servizio e, in secondo luogo, all’industria musicale di sopravvivere.
Il web, con le infinte possibilità che offre di venire a contatto con qualsiasi cosa, in modo immediato e soprattutto gratuito, ha educato il popolo di internet ad avere tutto, subito e gratis. Questo nasce con l’era della digitalizzazione, dai primi CD e DVD piratati, al download illegale di musica e film tramite Torrent e software appositi, e allo streaming non autorizzato di film e serie TV.
Tutto ciò ha abituato malamente gli utenti ad avere nelle proprie mani materiale audiovisivo senza pagare nulla a parte la connessione wi-fi. Però c’è da ricordarsi che film, musica e video sono frutto del lavoro di artisti e di altri migliaia di professionisti che operano dietro le quinte e che, come tali, vanno pagati. Anche la possibilità di fruire gratuitamente di app come Whatsapp, Facebook e Instagram ha abituato gli utenti ad avere accesso gratuito ad alcuni servizi e li ha portati a chiedersi perché dovrebbero, invece, pagare Spotify. La differenza sta nel fatto che le prime tre app sono gratuite perché la moneta di scambio siamo noi, cioè i nostri dati personali e i Big Data sfruttabili per fini commerciali; in Spotify la moneta di scambio sono i brani e, se la versione è Free, la pubblicità ha la funzione di coprire l’assenza di introiti monetari.
La cosa più preoccupante, al di là della capacità che ha ormai ognuno di noi di craccare servizi a pagamento, guardare film in streaming e scaricare musica da un video YouTube come se fosse il pane quotidiano, è la reazione del web, infuocato e adirato verso l’azienda. Un vero e proprio atto di cyber bullismo che ha visto Spotify prendere le vesti del ragazzino secchione di turno che, per una volta nella sua vita scolastica, decide di non suggerire le risposte del compito di fisica. Ciò che ne consegue sono gli insulti e commenti vergognosi dei compagni di classe nascosti dietro a un PC o a uno smartphone. Di certo il “caso Spotify” non è minimamente paragonabile a quello che succede tutti i giorni a causa del cyber bullismo. Spotify è un’azienda e non una persona fisica, ma la logica che sta dietro è la stessa: chi è user del web pensa di possedere il super-potere di poter avere tutto senza dare nulla in cambio, di insultare senza portare a conseguenze, di ottenere ciò che vuole tramite la violenza verbale.
L’azienda è cambiata dopo questo? Sicuramente non si è fatta intimidire dai feedback negativi, irrilevanti dal momento che ciò che ha fatto era nel suo pieno diritto. Ha, intelligentemente, saputo ascoltare cautamente il web e rispondere alle esigenze del mercato proponendo abbonamenti Premium a prezzo ridotto per gli studenti. E comunque il giorno dopo la versione Premium craccata era già disponibile per il download.
Alice Germani