Sfarzo smodato, lusso sfrenato, ostentazione della propria ricchezza: è questo che suscitano le prime inquadrature de L’assassinio di Gianni Versace, secondo capitolo della serie TV targata FOX e diretta da Ryan Murphy American Crime Story.
La stagione si è conclusa venerdì 23 marzo dopo nove puntate incentrate su uno dei casi più eclatanti di cronaca nera degli ultimi vent’anni anni: l’omicidio di Gianni Versace a Los Angeles, proprio di fronte alla sua villa in riva all’oceano.
Se tuttavia pensate che l’attenzione sia focalizzata sulla vita e sull’ascesa nel mondo della haute couture dello stilista italiano e della sua eccentrica sorella Donatella (interpretati rispettivamente da Édgar Ramírez e Penelope Cruz), vi sbagliate (e così ho fatto io). Il vero protagonista della serie è il villain, l’assassino Andrew Cunanan (impersonato dall’ex “usignolo” di Glee Darren Criss). Il giovane cittadino italo-filippino decise di porre fine alla vita di Versace una mattina dell’estate del 1997 e concludere “in bellezza” la serie di omicidi di cui si era macchiato nel corso degli anni (lo stilista fu “solo” la quinta delle sue vittime).
Ciò che colpisce maggiormente della serie, infatti, è che di Versace e della sua carriera si parli ben poco. Sotto i riflettori è il giovane Cunanan, di cui viene raccontata l’infanzia difficile, segnata dal rapporto controverso con un padre troppo apprensivo e con una madre mentalmente disturbata, l’adolescenza e la maturità, caratterizzate da un desiderio spasmodico del ragazzo di essere accettato e ricordato dalla comunità.
In fin dei conti, Gianni e Andrew sono più simili di quanto si potrebbe pensare: entrambi outsider ed entrambi omosessuali, lottano per affermarsi nel mondo e nella società, superando i pregiudizi e facendosi strada a modo loro. Ma se il primo è talentoso e determinato, il secondo è insicuro e in costante ricerca di accettazione. Mente sulla sua vita, diventa uno gigolo alla mercé di vecchi miliardari e colleziona una serie di omicidi che culmineranno con la sua vittima più celebre, che gli donerà per 15 minuti la fama da sempre agognata.
L’intento dei creatori è molteplice: se da un lato si vuole ricostruire una della pagine più controverse degli ultimi vent’anni, dall’altro sotto accusa non è tanto e non solo Andrew Cunanan (per il quale a fine stagione si prova addirittura una certa compassione), quanto la società americana e la sua superficialità. Lo sfondo è quello degli anni Ottanta, periodo di eccessi e libertà da un lato e di discriminazione e ribrezzo per gli omosessuali (considerati principali “untori” di AIDS) dall’altro. É una società interessata ai soldi e alla fama, che plasma i cittadini a sua immagine e somiglianza. Andrew ne è vittima e carnefice, così tanto assetato di celebrità da gongolare soddisfatto quando per poche ore (appena prima di suicidarsi con una pistola in bocca) è al centro dell’attenzione mediatica in quel lontano 1997.
L’assassinio di Gianni Versace, quindi, è la storia del suo assassino, un giovane tormentato e disilluso, ennesima vittima di un mondo frivolo e superficiale, che sceglie la morte (prima degli altri e poi la sua) pur di non restare nell’ombra e ottenere la sua rivincita su un mondo che lo ha sempre emarginato.