BLONDE: MISOGINIA D’AUTORE?

A 60 anni dalla sua tragica scomparsa, l’intramontabile diva del cinema Marilyn Monroe continua a far parlare di sé: nel corso della sua vita è stata al centro di diverse polemiche e scandali mediali, subendo continue umiliazioni che, purtroppo, non sembrano ancora volersi fermare. 

Dopo la vicenda che riguarda il suo celebre abito, indossato per l’esibizione Happy Birthday Mr. President, sfoggiato da Kim Kardashian durante il Met Gala 2022, a settembre dello stesso anno sbarca su Netflix Blonde, il nuovo film dedicato al ricordo della celebre artista, interpretata da Ana De Armas, che ha generato nuove ondate di dissensi e critiche.

Tratto dall’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates e diretto da Andrew Dominik, non vi è traccia della celebrazione di una grande artista, ma piuttosto viene restituita una dicotomia tra il personaggio creato ad hoc e Norma Jean, nome di battesimo di Marilyn, presentato come il suo lato più autentico, fragile e nascosto. Il racconto parte dall’infanzia della protagonista in una ricostruzione disturbante e inquietante dei suoi traumi, mostrando una carrellata di abusi subiti, a partire dal tentativo di omicidio della madre e l’abbandono in orfanotrofio, per arrivare agli esordi della sua carriera iniziata dopo lo stupro da parte del direttore. Abbiamo a che fare con un personaggio passivo, completamente in balia degli eventi e costantemente alla ricerca di una figura maschile, di un daddy, che possa in qualche modo colmare il suo vuoto generato dall’abbandono del padre.

Dietro al tentativo di una restituzione più autentica e intima dell’acclamata diva di Hollywood, si celano, però, delle scelte registiche che nascondono un sottotesto inquietante: Norma Jean non si riconosce nella figura di Marilyn, anzi sembra vivere il suo essere il sex simbol di un’intera nazione come una colpa, una lesione alla dignità di una donna che ha deciso di vendersi all’industria cinematografica e al successo al punto tale da abortire il suo primo figlio. Di fatto, dietro ad un’apparente denuncia al sistema classico hollywoodiano, spietato e disumano, si nasconde un messaggio fortemente misogino e anti-abortista, espresso attraverso la raffigurazione del grembo insanguinato della protagonista dopo l’aborto, o dalla raccapricciante discussione tra la donna e il suo feto il quale le chiedeva se l’avrebbe ucciso una seconda volta. Inoltre Marilyn, durante la scena in cui rivede dopo tanto tempo sua madre, in uno stato quasi vegetativo a causa dei farmaci, si commuove definendola una donna coraggiosa che ha fatto la scelta giusta nel tenerla con sé nonostante le difficoltà. 

Scegliere come veicolo di tale messaggio uno dei più acclamati simboli dell’emancipazione femminile non solo sembra ironico e del tutto fuori contesto, ma è un vero e proprio schiaffo morale nei confronti di una donna che ha vissuto nello strazio di non riuscire a portare a termine le sue gravidanze a causa di una malattia ancora oggi perlopiù trascurata e sottovalutata, quale l’endometriosi. 

Nella realtà dei fatti, insieme a tutte le sue fragilità e i suoi traumi, Norma Jean è stata una donna sessualmente libera che ha costruito con sacrificio la sua carriera nel tentativo di essere riconosciuta per il suo vero talento: il personaggio di Marilyn Monroe, che lei stessa ha contribuito a costruire a tavolino per l’industria cinematografica, rappresentava per lei un tentativo di riscatto, una possibilità di lasciarsi alle spalle l’infanzia difficile che aveva vissuto, e dava tutta se stessa per la carriera in un sistema fortemente misogino che la considerava solo come la “bionda stupida”, riuscendo nel 1955 a fondare una casa di produzione tutta sua, la Marilyn Productions: tutto questo, però, non è presente in Blonde nel quale troviamo solo una fragile creatura vittima di se stessa e di tutto ciò che la circondava

Sembrerebbe che Dominik non abbia tardato nel rispondere alle critiche, negando la vocazione anti-abortista del film e scaricando tutte le responsabilità al pubblico; lo stesso regista, però, durante un’intervista con Christina Newland del Sight and Sound Magazine ha espresso delle perplessità sulla figura di Marilyn e in particolare sul celebre Gli uomini preferiscono le bionde (1953) definendolo per “putt*ne ben vestite”. 

Insomma, nonostante le parole del regista sembrino smentire le accuse di misoginia, sicuramente le sue affermazioni a cuore aperto e, in un modo ancor più sottile, le sue scelte autoriali possono essere considerate l’espressione di una visione interiorizzata emersa inconsapevolmente; quello che sarebbe dovuto essere, probabilmente, l’obiettivo iniziale di rappresentare un’immagine della star di Hollywood che andasse oltre l’apparenza e che potesse scavare in profondità nella sua psiche, restituendocene un’immagine più viva, sembrerebbe essere l’espressione di una mancanza di stima del regista nei confronti di questa donna, in particolare del suo pseudonimo ‘ben vestito’ che le è stato violentemente attaccato addosso. 

Sara Celona