ELITE 6: UN TENTATIVO SUPERFICIALE DI PROFONDITÀ

Il 5 ottobre 2018 è approdato per la prima volta, in esclusiva su Netflix, il teen drama mistery di produzione spagnola destinato a diventare uno dei titoli più visti sulla piattaforma: il grande successo Elite, una serie diCarlos Montero Darío Madrona, tornata quest’anno con la sesta stagione mostrando un’incredibile longevità e capacità di generare ancora ascolti da record. 

C’è una formula magica alla base di tale successo?  

Nel corso delle sue sei stagioni, Elite ha presentato una formula ricorrente che vede il ritorno degli stessi pattern narrativi dimostratisi vincenti sin dalla prima stagione: la sequenza che ci introduce al racconto consiste sempre in un flashforward, che mostra un delitto rendendo così lo spettatore subito consapevole della morte di uno dei personaggi, per poi introdurlo ad un percorso a ritroso tra i conflitti e le dinamiche che porteranno al tragico epilogo. 

Questa formula non solo permette di innescare un meccanismo di curiosità nella mente dello spettatore, motivandolo nella visione dell’intera stagione, ma funge anche da elemento riconoscibile per il brand generando un senso di familiarità negli affezionati

Per un pubblico più esperto, però, quella che inizialmente poteva essere una scelta narrativa interessante si sta trasformando in un leitmotiv ormai noioso e scontato: come spesso accade nell’ambito di un prodotto creativo quando si trova la formula funzionante è rischioso tentare qualcosa di nuovo togliendo uno o più degli elementi che il pubblico ormai associa alla serie. Non c’è nulla di male nello sfruttare ciò che funziona all’interno di un franchise che punta alla longevità, ciononostante in Elite tutto questo è esasperato. Dalla quarta stagione, dopo l’addio di personaggi storici come Carla, Lu e Nadia, ne sono stati introdotti di nuovi i quali però hanno iniziato a presentare delle caratteristiche caratteriali e comportamentali simili a quelle dei personaggi precedenti, nel tentativo disperato di generare artificiosamente una sorta di eredità dell’affezione tra le new entry e i fan.  Questi stratagemmi non sono passati inosservati anche agli occhi dei meno esperti, i quali hanno criticato duramente la qualità autoriale dello show definendola di basso spessore narrativo. 

Sebbene sia innegabile un calo nella qualità della sceneggiatura, ormai ripetitiva e scontata, bisogna sottolineare che il fine ultimo di Elite non sembrerebbe l’ambizione di una grande sceneggiatura di qualità, quanto piuttosto emerge forte l’intenzione di rivolgersi ad un target adolescenziale o di giovani adulti nel tentativo di sensibilizzare, in modo spesso crudo e cruento, su tematiche sociali quali l’abuso di alcol e droghe, la prostituzione, la violenza di ogni genere, l’omofobia, il razzismo e così via. I personaggi sono studenti della facoltosa scuola Las Encinas, la quale forma la futura classe dirigente spagnola, e ci vengono mostrati come soggetti con forti problematiche a livello psicologico, con figure genitoriali assenti o del tutto negative, incapaci di essere dei punti di riferimento per i propri figli; i ragazzi si sentono abbandonati e assumono atteggiamenti che fungono da specchio di una società superficiale basata interamente sull’ostentazione di cose materiali e il divertimento più sfrenato. I protagonisti non ci vengono mostrati come un esempio da seguire, ma come il risultato di una società malata sulla quale i giovani spettatori dovrebbero riflettere.

Purtroppo, la struttura carente della sceneggiatura conduce inevitabilmente ad una narrazione dell’inverosimile, nell’esagerata drammatizzazione degli eventi e la qualità dei nessi narrativi e logici all’interno dei conflitti tra i personaggi spesso decade in una sorta di confusione collettiva.

Le problematiche ritornano più evidenti che mai nella sesta stagione: le tematiche maggiormente trattate sono l’abuso sessuale, la dipendenza da droghe e l’omofobia, esplorate nelle vicende personali dei protagonisti con un tono spesso melodrammatico volto a suscitare un sentimento di empatia in chi guarda; tentativo che non sempre va a buon fine a causa della mancanza di coerenza nei principali snodi narrativi e di una superficialità nello sviscerare l’interiorità dei personaggi. Un esempio calzante è il personaggio Nico, un ragazzo transgender che si fa portavoce di questa tematica delicata e di certo non facile da sviscerare: il ruolo del ragazzo all’interno della narrazione però, sembra semplicemente essere quello di veicolare i messaggi che gli sceneggiatori vorrebbero trasmettere, senza andare in profondità, rendendo complicato il processo di immedesimazione. 

Elite è un prodotto che vuole impegnarsi nel sociale attraverso la denuncia a un sistema marcio, alla violenza e alle discriminazioni; purtroppo, nonostante il nobile intento, non sempre la sceneggiatura ci riesce a causa della difficoltà nell’empatizzare con i personaggi dovuta ad una povertà dei nessi logici e narrativi che, troppo spesso, manca all’interno del loro agire. Inoltre, il loro stato emozionale non viene approfondito arrivando a drammatizzare fastidiosamente certi avvenimenti per cercare di veicolare il messaggio. La potenza di un messaggio sta in altro: mostrare sullo schermo delle persone complete, in tutte le loro sfaccettature che vanno al di là dell’orientamento sessuale, della religione, della nazionalità… è la chiave per l’empatia

Sara Celona