Quali sono i protagonisti che hanno reso possibile il Progetto Abbi Cura di Te? Parliamo con Andrea Ciocca, il coordinatore di Comunità della Salute, progetto sperimentale nato nella provincia di Bergamo.
Di che cosa si occupa?
Sono il coordinatore di Comunità della Salute, iniziativa regolata da un protocollo di intesa avviato dalle amministrazioni comunali di 4 paesi bergamaschi. La comunità ha un gruppo di coordinamento e il mio compito è quello di organizzare il progetto. Comunità della Salute nasce un anno e mezzo fa, precisamente nel periodo di uscita dalla prima ondata che ha colpito duramente la bergamasca. In quei mesi, l’affaticamento delle istruzioni sanitarie a livello territoriale ha messo in luce uno sfilacciamento della presa in carico della salute delle persone.
Io e il Dottor Mirco Nacoti – mente e cuore di questa iniziativa nonché referente scientifico – abbiamo fatto tesoro della nostra esperienza lavorativa in ambito di crisi umanitaria e abbiamo messo in campo misure eccezionali, stabilendo delle priorità. Non abbiamo lasciato nulla al caso.
Uscendo dalla prima ondata e guardando all’assenza di strutture territoriali, abbiamo pensato di sperimentare delle modalità di organizzazione dal basso per la presa in carico della salute delle persone. Come? Mettendo insieme attori non strettamente sanitari, come le associazioni di volontariato. Il cittadino è protagonista della salute propria e di chi gli sta vicino e non può delegare a ospedali e centri la presa in carico della salute. La salute è una responsabilità di tutti.
Come è entrato in contatto con il “PROGETTO ABBI CURA DI TE”?
Tutto nasce dal rapporto di amicizia che lege me, Mirco e la professoressa Elisabetta Locatelli. Durante gli anni dell’università eravamo volontari in un’associazione locale nella provincia di Bergamo. In realtà, io la professoressa Locatelli siamo originari dello stesso paese: Osio Sotto.
Quando il nostro progetto ha incluso il fattore ‘comunicazione’ e siamo diventati più popolari, la dottoressa Locatelli ci ha intercettati e contattati. Ci siamo resi conto di operare in campi simili: perché non provare a collaborare? L’idea è rimasta nel cassetto per un po’, fino al lancio della nuova edizione.
Qual è il suo contributo al progetto?
Insieme agli organizzatori del Progetto Abbi Cura di Te abbiamo messo a disposizione l’esperienza e la storia di Comunità della Salute. Abbiamo provato, insieme alle altre iniziative, a raccontarla agli studenti, presentando Comunità della Salute sia sotto il profilo organizzativo che sotto il profilo comunicativo. Ci siamo focalizzati sull’importanza dell’uso delle parole, in particolar modo sulla pericolosità di usare metafore belliche (accostare l’epidemia a una guerra, per intenderci) oppure relegare il concetto di epidemia solo all’ambito ospedaliero. La pandemia è ovunque, bisogna affrontarla nelle case e nelle strade. In seguito, ci siamo messi a disposizione diventando correttori di bozze per gli studenti durante le varie fasi di lavoro, a partire dall’analisi di contesto fino all’ideazione di post e storie. Abbiamo letto i loro lavori, fatto delle osservazioni che poi, insieme a quelle degli altri professori ed esperti, sono entrate a far parte del lavoro di esercitazione, correzione e miglioramento del prodotto.
Perché ritiene che sia importante lavorare su nuove forme di comunicazione della salute oggi?
La comunicazione è fondamentale per la salute: è uno dei bisogni necessari alle persone per sentirsi parte di una rete relazionale appagante. Le relazioni hanno bisogno di comunicazione.
La comunicazione della salute ha alcune funzioni specifiche imprescindibili: informare, promuovere, intercettare i bisogni. Ricordiamolo sempre: la salute non deve lasciare indietro nessuno. In periodi come quelli che abbiamo vissuto, la gente esce di meno e le piazze classiche non diventano un luogo di scambio di informazioni, per questo occorre sempre presidiare in maniera efficace anche le piazze digitali.
Come vede il futuro del Progetto Abbi Cura di Te?
Per adesso si tratta di un progetto interno all’università, ma potrebbe anche evolvere ed essere riconosciuto con importanza da agenzie ed enti; potrebbe avere una vita parallela a quella universitaria, complementare, ma gestita dai destinatari immaginati dall’università.
Si potrebbe arricchire il progetto coinvolgendo altre figure professionali, come antropologi o esperti di comunicazione interculturale, provare a fare un discorso trasversali.
Rebecca Alzati