Ancora non è stato provato scientificamente se il batter d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas, tuttavia possiamo senza dubbio affermare che un semplice tweet di Adele riesce a scatenare una piccola rivoluzione musicale.
Come direbbero dalle sue parti, “long story short”: la famosa cantautrice britannica ha attraversato un divorzio, ha scritto un intero album a riguardo, e vorrebbe che le sue canzoni – manifesti su scala mondiale del dolore e della sofferenza – fossero suonate nell’ordine corretto; Spotify alla fine si è dimostrato d’accordo con lei.
La società di streaming musicale ha deciso infatti di rimuovere la sua funzione shuffle per tutti gli album ascoltati dagli utenti premium, dopo anni in cui questo ha rappresentato la modalità predefinita. Infatti, finora premendo il pulsante di riproduzione di un album su Spotify si mischiavano automaticamente le canzoni anziché riprodurle nell’ordine voluto dall’artista. Adesso, la funzione shuffle è ancora disponibile quando si riproduce una singola traccia di un album, ma il pulsante principale di riproduzione non è più predefinito per riprodurre le canzoni di un album in ordine sparso.
Un piccolo passo per Spotify, un grande passo per Adele: “Questa era l’unica richiesta che avevo nella nostra industria in continuo cambiamento!” aveva twittato l’artista, affermando poi che “non creiamo album con così tanta cura e pensiero nella nostra lista di tracce senza motivo. La nostra arte racconta una storia e le nostre storie dovrebbero essere ascoltate come le intendiamo noi”. A tale dichiarazione, l’account Twitter della piattaforma ha addirittura risposto con “Qualsiasi cosa per te”.
Non solo un piccolo passo, dunque, ma soprattutto un passo importante in un contesto particolare. Nel 2021, la popolarità dei servizi di streaming spesso porta quasi ad obbligare gli artisti a pubblicare la propria musica su piattaforme come Spotify se vogliono che la gente li ascolti (nonostante le lamentele riguardo i ritorni economici non troppo equi). Davanti a questo ennesimo esempio di imperialismo delle piattaforme, Adele già in passato si era inizialmente dimostrata restia nel mettere il suo precedente album, 25, in streaming, rendendolo lì disponibile solo quasi sette mesi dopo la sua uscita ufficiale. Nonostante tali reticenze, l’album è stato comunque l’album digitale e fisico più venduto del 2015, vendendo un record di 3,3 milioni di unità nella sua prima settimana.
In ogni caso, è sempre bene analizzare la situazione con uno sguardo critico: il boom dello streaming vissuto soprattutto post Covid ha ulteriormente consolidato la posizione delle grandi piattaforme del settore, e per forza di cose questo eccesso di potere ha portato a una maggiore disuguaglianza e a una retribuzione iniqua dei performers, soprattutto perché le grandi etichette sfruttano il loro vantaggio strutturale per raccogliere grandi profitti a spese delle etichette indipendenti e dei musicisti, mentre la “gamification” del successo cerca di mettere i musicisti ormai atomizzati gli uni contro gli altri. Senz’altro, l’attuale modello di streaming non è stato costruito con gli artisti in mente. Gli interessi delle grandi etichette aziendali, delle piattaforme di streaming e degli investitori mirano a garantire che il sistema rimanga invariato continuando a favorire il loro tornaconto personale, mentre lo sfruttamento degli artisti e la svalutazione della loro musica continua. Sicuramente, Adele non rientra tra le artiste sfruttate, dimostrando come a posizioni elevate nel mondo della musica corrisponda un supporto privilegiato da parte delle piattaforme stesse.
Era garantito che il tanto atteso quarto album di Adele, 30, sarebbe apparso nella scena musicale internazionale come una bomba in quanto suo primo disco completo in oltre sei anni… Chi l’avrebbe mai detto che appena pubblicato avrebbe fatto così tanta notizia per una ragione diversa!
Lucia Bernabei