Dopo lo scandalo legato a Cambridge Analytica, Facebook non smette di essere nel mirino della cronaca: il 12 ottobre, la piattaforma ha annunciato ai suoi dipendenti che avrebbe provveduto a trasformare alcuni dei suoi gruppi di discussione online interni in “modalità privata”, per ridurre i leaks di informazioni aziendali il più possibile. Siamo sicuri di poter ancora definire la trasparenza uno dei suoi core values?
La maggior parte dei lavoratori della compagnia era solita utilizzare la chat di Workplace, una sorta di versione aziendale del social network stesso, per comunicare e collaborare: ad oggi, i vertici di Facebook hanno scelto di limitare il numero di persone che possono visualizzare e partecipare a determinati thread di discussione, nonostante la chat fosse sempre stata aperta. Questa contromossa è una diretta conseguenza del caso Frances Haugen, che ha scosso il social network più famoso del mondo in tempi più recenti.
Frances Haugen, informatico statunitense, ha lavorato per quasi due anni nelle vesti di product manager per il team di Integrità Civica della società. Qui, monitorava la diffusione di disinformazione sulla piattaforma, al fine di garantire che non fosse utilizzata per destabilizzare la democrazia durante le presidenziali americane del 2020. A elezioni terminate, il suo reparto è stato smantellato e, per quanto l’azienda si fosse preoccupata di dividerne il lavoro e gli obiettivi principali in altri dipartimenti, secondo Haugen questo non sarebbe stato comunque sufficiente a prevenire la disinformazione, anzi: Facebook avrebbe spesso e volentieri posto i suoi interessi davanti a quelli della sua community. Da qui nasce la sua spinta a licenziarsi, a presentare circa otto denunce alla Securities and Exchange Commission USA, sostenendo che Facebook stesse ingannando i suoi investitori; a far trapelare decine di migliaia di documenti interni all’azienda al Wall Street Journal. La celebre testata ha conseguentemente pubblicato una serie di rapporti volti a dimostrare come il social network fosse consapevole degli effetti negativi della disinformazione e dei danni provocati in particolare alle ragazze adolescenti, ma fu fatto poco per fermarla.
Chiaramente, dopo un evento del genere, Mark Zuckeberg ha dovuto correre ai ripari da tutte queste fughe di notizie, agendo con l’annuncio di cui sopra: Facebook avrebbe iniziato a setacciare alcuni dei suoi gruppi di discussione online interni tra dipendenti, per rimuovere coloro il cui lavoro non fosse legato all’integrità e alla sicurezza.
Se, da un lato, la volontà è quella di proteggere la società dai leaks che, a detta dei vertici della società, sono decontestualizzati e dunque caratterizzano erroneamente il lavoro del colosso di Menlo Park, dall’altro l’impressione è quella di un netto cambio di rotta rispetto alla cultura aperta al dibattito e alla trasparenza che l’aveva sempre contraddistinto. Come colmare questo divario?
Qualche mese fa, la stessa Haugen ha proposto, durante un’audizione al Congresso, di istituire un’agenzia di regolamentazione dedicata a sorvegliare le industrie come Facebook, al fine di proteggere i cittadini dai potenziali effetti dannosi dei social network, che spesso scelgono i profitti, a discapito della sicurezza degli utenti.
Facebook non si è ancora davvero espresso a riguardo, ma quel che è certo è che la compagnia non può aspirare alla trasparenza senza offrire al pubblico una visione analitica più completa e accessibile dei suoi contenuti e del suo comportamento in quanto azienda. È, infatti, difficile ignorare l’influenza e il potere di una piattaforma editoriale come questa, che veicola comunicazione e informazione a un terzo della popolazione globale, sia essa volente o nolente. Per questo, più che limitare la libertà d’espressione dei suoi dipendenti, dovrebbe garantirla e promuoverla tanto all’interno, quanto all’esterno di Menlo Park.