Nessuna conferma ufficiale, per ora – sono indiscrezioni arrivate da Buzzfeed News, che, rivoltosi alla portavoce del brand Sanja Gould, ha ricevuto un ermetico «corporation stands against hate speech.»
Non sarebbe la prima volta che Starbucks chiede a Zuckerberg una maggiore sorveglianza del dibattito sulle piattaforme: durante il Black Community Month, in cui i dipendenti appartenenti alla Black Community erano stati incentivati a fare attivismo attraverso le pagine del brand, Starbucks si era trovato coinvolto in un marasma d’odio senza precedenti e senza giustificazioni. In quell’occasione la moderazione dei commenti, che rientra tra le forme di community management tipiche, non era servita a molto: l’accusa principale era che una catena di caffetterie non potesse arrogarsi il diritto di dire la propria su temi che non fossero biscotti al burro e miscele per il caffè.
Evidentemente queste richieste sono irragionevoli sotto molteplici punti di vista: Starbucks non è solo una caffetteria, così come Patagonia non si limita a produrre abbigliamento sportivo e Ikea a vendere mensole. I brand sono costruiti attorno ad un’identità, la stessa che permette loro di porsi sul mercato in maniera univoca ed essere sempre riconoscibili rispetto ai competitors, perché il livello di asset tangibili è ormai diventato standard a tutti i prodotti sul mercato: è l’intorno valoriale a orientare il sostegno degli shareholders e le preferenze dei consumers.
In passato Starbucks aveva preso parte, con altri marchi e celebrities, alla campagna #StopHateForProfit: l’astensione dall’acquisto di spazi pubblicitari su Facebook e Instagram voleva lanciare ai vertici il messaggio che, con questo livello di noncuranza, la brand identity ed i diritti civili finiscono in secondo piano rispetto all’attività promozionale – inammissibile. E sia chiaro: nessuno, nemmeno Starbucks, invoca alla censura, ma la quantità d’odio riversata sui post che accennano a temi d’inclusività e rispetto delle diversità, è francamente insopportabile e diseducativa.
Il digital marketing ha trasformato il modo di far pubblicità degli ultimi dieci anni: dei 250 milioni di dollari investiti a livello globale in advertising, Starbucks ha destinato una cospicua percentuale al digital. Senza dei segnali di “presa in carico del problema”, è ragionevole pensare che il brand preferirà owned media e SEM: non sarebbe il primo ad individuare nel social un problema più che un touchpoint strategico. E se a far la differenza nel customer journey, oggi, è la brand identity, quale mossa strategicamente più furba dell’abbandonare una piattaforma che rimane indifferente alla sicurezza della comunità e tollera l’hate speech?