Per le case di moda essere sostenibili è sempre meno una scelta coraggiosa e avanguardista: per stare al passo con un mercato sempre più critico ed esigente, rivalutare la propria catena del valore e rendersi più green è essenziale. Di strade verso la sostenibilità ce ne sono molte e le sfide non sono certo poche; una di queste sta nell’abilità del brand di rendere conscio il cliente di come sia stato creato l’articolo e della “vita” che ha vissuto prima di entrare nel suo armadio. Per sostenere una filosofia di consumo consapevole, è, infatti, necessario che gli acquirenti siano a disposizione di tutte le informazioni necessarie così da prendere una decisione oculata.
Se una volta poteva essere sufficiente un’etichetta che alludeva a materiale e provenienza di una t-shirt, oggi, a queste generalità, il mercato pretende di veder affiancate indicazioni più specifiche, come la provenienza delle materie prime, le emissioni di CO2 che si sono create nella produzione, certificazioni che assicurano la salvaguardia dei lavoratori, e così via.
Queste pretese di trasparenza creano almeno due problematiche. La prima si lega alla necessità di definire delle authority che siano in grado di stabilire e comunicare in modo univoco al consumatore se un’azienda stia effettivamente operando in un’ottica green. Ad oggi, esistono svariati indici (da quello creato da Business of Fashion a quello promosso da Fashion Revolution, a quello del New York Times Fashion che valuta la trasparenza rispetto a temi di diversity), ma ognuno adotta i suoi parametri per soppesare l’impatto ambientale e/o sociale dei brand. Di fronte a questa confusione, il consumatore, seppur ben intenzionato, non sa a che metrica rifarsi e si ritrova, spesso, a fidarsi dei brand che riescono a comunicare la propria attitudine green in maniera più efficace, anziché acquistare sulla base di solide informazioni.
Un secondo tema è quello della collocazione fisica di questi dati sulla vita del capo d’abbigliamento. A ragione, siamo abituati a pensare, nella moda come nel settore del food and beverage, che le informazioni su un prodotto si debbano trovare attaccate all’indumento o sul packaging dello stesso. Nel momento in cui le indicazioni ricercate dall’acquirente sono più consistenti e precise, l’etichetta sembra diventare sempre meno adatta.
A questi due ordini di problemi, Pinko sembra voler proporre una soluzione che accompagna il suo nuovo progetto di upcycling. La collezione stessa, composta da vestiti d’archivio reinterpretati che diventano le materie prime per nuovi pezzi unici, mostra l’intenzione del brand italiano di spostarsi verso un modello di economia circolare che punta ad una riduzione degli sprechi e ad una maggiore consapevolezza nell’impiego delle materie prime.
L’aspetto più interessante in termini di modalità di trasmissione dei propri valori e sforzi al consumatore è l’utilizzo della tecnologia Blockchain per documentare le metamorfosi e gli stadi di modifiche che l’articolo ha vissuto prima di arrivare nelle mani del cliente. Collaborando con Temera, Pinko è riuscita a creare un sistema che permette di “cucire” sui capi di questa collezione un tag Nfc che identifica univocamente il prodotto e ne racconta la storia. Grazie alla funzione “Verified by Virgo”, il consumatore può controllare direttamente l’attendibilità di informazioni, quali l’impegno in termini di ore di sartoria impiegato.
La storia di Pinko testimonia una risposta valida alle pretese di trasparenza e tracciabilità del mercato. Come lo stesso CEO di Temera, Arcangelo D’Onofrio, ha sottolineato, si registra un vero e proprio fenomeno di “urgenza digitale, il quale ha accelerato la modalità con cui il prodotto viene messo al centro delle interazioni tra brand e cliente”. Con questa mossa, Pinko riesce a far parlare i propri abiti e accessori direttamente al consumatore, trasmettendo il proprio impegno per la sostenibilità.