Il sostantivo Finsta è una crasi che fonde “fake” e “Instagram”. Si tratta di account “falsi”, nel senso di secondari e rigorosamente privati, riservati ad una platea ristrettissima che conta circa 30 follower.
Sono creati in affiancamento al proprio profilo principale e servono per interagire con un’audience più familiare, condividendo contenuti molto personali, a volte anche imbarazzanti, per intrattenere gli amici o, più semplicemente per tenerli aggiornati sulle proprie giornate. Già dall’immagine del profilo ci si distacca dagli shooting professionali che si trovano sugli account principali: si usano selfie divertenti, con i filtri del momento. Inoltre, per i Finsta, non si utilizzano nomi che permettono un’immediata identificazione, per esempio si evita il proprio cognome e si preferiscono nickname come “EverydayNome” o “NomePrivateclub” oppure soprannomi conosciuti solo dagli amici più stretti.
Riassumendo, gli utenti mantengono il profilo principale per pubblicare post che contribuiscono a creare il proprio personal branding, curando la propria immagine in tutti i dettagli, attraverso foto patinate di viaggi, esperienze indimenticabili e successi. Mentre i Finsta sono riservati a contenuti più autentici, reali, divertenti e irriverenti: i selfie venuti male, la foto col nonno a Natale, i momenti di una serata troppo lunga.
Il fenomeno è spopolato tra gli utenti della Gen Z in risposta ai numerosi lockdown che hanno sospeso la possibilità di socialità. L’esigenza di autenticità che contraddistingue la Gen Z e l’insofferenza alla costante ostentazione di un’apparente perfezione hanno condotto alla creazione di questi safe place, in cui interagire liberamente con una cerchia ristretta senza però precludersi la visibilità e popolarità che solo il profilo pubblico può dare.
Se da un lato questo trend denota la necessità di autenticità della Gen Z, dall’altro mostra un uso sempre più consapevole dei social e la volontà di controllare la propria immagine su piattaforme popolate da diversi soggetti: non solo amici e sconosciuti ma anche recruiter, parenti, professori e malintenzionati. I social, infatti, non sono un mondo virtuale separato dalla vita quotidiana ma vanno ad integrarsi con essa contribuendo a costruire il proprio self branding.
Questa attenta gestione dei propri profili social potrebbe essere riletta alla luce degli studi di Goffman come un processo di messa in scena della propria identità: i diversi account diventano luoghi in cui presentare se stessi in modo più controllato e riflessivo rispetto alle situazioni offline (Vittadini, Social Media Studies, Franco Angeli).
Come avviene durante uno spettacolo teatrale, le rappresentazioni di sé che si vogliono mostrare agli altri sono presentate in scena tramite il profilo pubblico oppure relegate nel retroscena, sui Finsta e quindi accessibili solo alla platea dei più intimi.