RESPONSABILITÀ 2.0: QUANDO LA DEMOCRAZIA DIPENDE DA UN TWEET

Quanto vale il diritto di parola? E soprattutto, può esistere in una democrazia il potere di toglierlo ad altri? Dopo il precedente storico del ban dalle principali piattaforme social dell’ex presidente Trump, a quanto pare sì. L’interrogativo che ci dobbiamo porre adesso è quindi il seguente: si è trattato di un episodio di censura o di un diritto regolarmente esercitato da parte di un’azienda privata nel tentativo di fare rispettare le proprie regole?

Sono passate settimane da quando l’(ex)uomo più potente della terra, il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, è stato bandito dai social, gli stessi che aveva usato lui stesso durante i quattro anni della sua presidenza per far riecheggiare le sue parole in tutto il mondo, gli stessi che hanno portato centinaia di persone a riunirsi e ad assaltare il simbolo della democrazia americana, il Campidoglio, per rivendicare delle elezioni “rubate”.

Ma come siamo arrivati a tutto questo? Facciamo un passo indietro. Donald Trump, per il suo sapiente uso delle piattaforme digitali è conosciuto come il primo presidente “dual screen”, colui che meglio di tutti ha saputo usare i social a suo favore, facendo sapientemente leva sulle loro caratteristiche per creare messaggi precisi, semplici (talvolta troppo per un Presidente), diretti come frecce. Questi messaggi sono stati per i 4 anni del suo mandato ripresi sui media tradizionali da giornalisti televisivi e non, spesso con molte critiche, perché alla fine oggi non importa come si parla di qualcuno, purché se ne parli.  E così è stato. Il potere del messaggio dunque è corroborato dal medium stesso che lo propaga, come già sottolineato da McLuhan in circostanze non sospette: il medium è il messaggio. Un tweet, nelle sue poche righe, se sapientemente redatte, ha un potere viralizzante enorme e, nella sua semplicità, entra tra le folle diventando una vera e propria arma. In poche righe, percezione e realtà, chiacchiericcio e informazione si fondono in un insieme intrecciato ed indistinguibile, in cui niente è certo ma tutto è possibile. Ecco cosa c’è stato alle basi del silenziamento delle Big Tech verso the Donald.

Come spiega Van Dijk in “The Platform Society”, le logiche delle piattaforme stanno modellando la società contemporanea. È quindi normale, secondo questa logica, pensare che questi strumenti siano utilizzati in politica. Un po’ più preoccupante per chi scrive è pensare che gli stessi siano considerati come la base della comunicazione politica per il suo scopo più importante: propagare idee e creare consenso. Si crea oggi sui social una narrazione “ad personam” che, grazie agli strumenti offerti dalle piattaforme quali micro targeting, dark post e quant’altro, vanno a creare una politica “soggettiva” che propone ciò che le persone vogliono sentirsi dire: una politica populista.

Le piattaforme dal canto loro, non più rivestite da quella patina sognante che tutti noi gli avevamo ingenuamente attribuito in passato, prima della “scoperta degli altarini” della vicenda Cambridge Analytica, stanno finalmente muovendo i primi passi verso una responsabilità editoriale. Come abbiamo visto durante la pandemia, molti social hanno creato degli hub di informazioni affidabili e verificate, o quanto meno il corretto rimando a fonti ufficiali per evitare il proliferare di fake news in un periodo così delicato come quello che stiamo vivendo. Certo, molto è il lavoro che resta ancora da fare: nessuna piattaforma si è preoccupata di controllare il resto delle informazioni in circolo sulle proprie pagine in modo più approfondito ed intensificato, limitandosi a fare il “compitino” evidenziando in aree apposite i rimandi alle fonti ufficiali. Non basta, ma non si può dire che sia un inizio verso una presa di responsabilità da parte delle Big Tech, che forse proprio col ban a Trump hanno voluto dimostrare la loro autorità e l’inizio verso una nuova presa di coscienza nei confronti del proprio potere e delle società in cui sono inserite. È stato il modo giusto per farlo? Intanto, è stato qualcosa.

GIULIA DEI