La libertà di espressione è un diritto sancito a livello internazionale a partire dalla normativa della Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite del 1948. Infatti, l’articolo 19 recita: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.”
In realtà il concetto di libertà è però declinato in maniera diversa a seconda dei vari contesti nazionali. Mentre per noi è assolutamente normale poter dire, esprimere e scrivere quello che pensiamo, soprattutto in quest’era social in cui anzi il confine tra libertà di espressione ed eticamente coretto è divenuto labile, in altri Paesi le cose non funzionano allo stesso modo.
In effetti, Il 28 dicembre scorso la blogger cinese Zhang Zhan è stata condannata a quattro anni di carcere per aver diffuso, attraverso Twitter, YouTube e Wechat, alcuni report che raccontavano le fasi iniziali della diffusione del virus Covid-19 a Wuhan.
Le accuse si fondano sul fatto che la giovane ex avvocatessa cinese avrebbe pubblicato false informazioni, provocato problemi di ordine pubblico e, cosa ancor più grave, concesso interviste a media stranieri che “hanno speculato malignamente sulla pandemia a Wuhan”.
Il caso di Zhang Zhan sfortunatamente non è un caso isolato. Prima di lei altri tre giornalisti erano stati arrestati per aver documentato la situazione pandemica nel Paese e accusati di diffondere informazioni false a scapito del governo cinese. A marzo il governo di Pechino ha anche deciso di rimuovere il permesso di lavoro ai corrispondenti del New York Times, del Washington Post e del New Street Journal, in quella che viene definita come la più grande azione della Cina contro la stampa straniera.
Queste situazioni, che a noi appaiono surreali (si potrebbe dire anche un po’ Orwelliane) possono essere spiegate analizzando il ruolo dell’informazione nella politica cinese. Il presidente Xi Jinping ha definito l’informazione come una delle tre “armi magiche” del Partito Comunista Cinese nel diventare un leader della globalizzazione 2.0.
Per raggiungere questo obiettivo, secondo il governo, sarebbe fondamentale il controllo dell’informazione e non solo nell’ambito della sfera pubblica cinese, ma anche nel modo in cui i media internazionali commentano le questioni relative al Paese. Un documento redatto subito dopo l’insediamento di Xi Jinping sottolinea come sia assolutamente necessario impegnarsi per rafforzare la gestione di tutti i tipi di propaganda e non lasciare nessuna opportunità di sbocchi per diffondere pensieri o punti di vista “errati”.
Sulla base di quanto detto si spiega anche la ragione per cui in Cina l’uso dei Social Network convenzionalmente utilizzati nella maggior parte dei paesi del mondo è pressoché vietato. L’unico modo per poter accedere (illegalmente) a siti quali Facebook, Twitter o Google all’interno del Paese è utilizzando un VPN. La Cina vanta infatti un proprio e sofisticatissimo sistema di Motori di Ricerca e Social.
Negli ultimi anni Wechat, il sistema di messaggistica cinese, si è sviluppato in maniera esponenziale superando di gran lunga il suo corrispondente occidentale Whatsapp e le maggiori imprese digitali cinesi come Alibaba, Baidu e Tencent sono in piena ascesa, con una crescita annua stimata intorno al 7%.
La ragione di questa chiusura nei confronti dell’Occidente ha sicuramente una base economica ma anche, e soprattutto, etica considerando che i siti occidentali non potrebbero mai sottostare alle regole di Pechino che impongono la condivisione dei dati e delle informazioni degli utenti con le autorità governative (Wechat arriverà addirittura ad essere un certificatore elettronico ufficiale della Repubblica Popolare Cinese).
Riassumendo, si può dire che la Cina investa tantissimo sullo sviluppo tecnologico e su quello dei mezzi di comunicazione, ma tutto quello che viene messo in rete e condiviso deve rispettare le rigide politiche governative: quindi poco spazio per il Citizien Journalism e la partecipazione attiva dei cittadini.
Sofia Contini