KADAVER: ATTORI O SPETTATORI?

Dalla regia del regista norvegese Jarand Herdal, Kadaver, film dell’ottobre 2020 originale Netflix, si instaura in una rappresentazione drammatica a sfondo sociale, in cui niente è davvero come appare. Ambientata in uno scenario post-apocalittico, la narrazione prende avvio nel momento in cui una famiglia ormai disperata decide di prendere parte ad una cena offerta in un sontuoso albergo, situato al margine opposto della città. Emerge fin da subito la chiara dicotomia tra la città spopolata dall’atmosfera cupa ed il lussuoso edificio perennemente illuminato, simbolo di speranza.

Ed è così che Leonora (Gitte Witt) e Jacob (Thomas Gullestad) decidono di usare i pochi risparmi accumulati per far trascorrere una serata spensierata e diversa dalle altre alla figlia Alice (Tuva O. Remman). La premessa è quella di assistere ad una rappresentazione teatrale accompagnata da cibo in abbondanza. Una volta sul posto vengono da subito immersi in una situazione particolare: da spettatori dovranno indossare delle maschere dorate, in modo da distinguersi dagli attori privi di queste. Iniziato lo spettacolo il pubblico dovrà decidere quale attore seguire, attraverso i numerosi percorsi labirintici all’interno dell’hotel. Tuttavia quello a cui assisteranno sarà estremamente inquietante, una lotta alla sopravvivenza in cui pochi vinceranno.

Sebbene il confine tra realtà e rappresentazione venga segnato dalla presenza di maschere queste, tuttavia, non vengono indossate dagli attori, contrariamente a quanto accade solitamente negli spettacoli teatrali. I veri protagonisti della storia saranno infatti gli stessi partecipanti che, una volta spinti attraverso i sotterfugi degli attori verso trappole nascoste nei pavimenti, verranno non solo spogliati dei loro averi, ma mandati al macello.

In una realtà distopica che celebra una collettività fittizia non resta che scegliere tra essere vittime o carnefici, spingendosi ben oltre i principi comuni. L’atmosfera sinistra ed ansiogena della narrazione viene marcata ulteriormente dalla presenza di immensi corridoi e scale senza fine, nonché attraverso un uso sapiente di colori saturi e luci diffuse. Il climax di tensione viene poi amplificato dalla sceneggiatura e dal montaggio delle sequenze. Procedendo con il racconto risulta sempre più chiara la difficoltà nel distinguere il fittizio dal reale, in quanto vi è un rimando continuo tra i due spazi di vissuto. Sarà proprio l’atto dei due coniugi di togliersi la maschera e gettarla per terra a sancire il punto di non ritorno: è il momento in cui gli spettatori si rendono conto di essere al centro dello spettacolo, i ruoli si mescolano e nulla è più delineato.

Solo alla fine del lungometraggio gli attori-carnefici, complici di una simile disumana messa in scena, riveleranno di non sapere il fine delle loro azioni e di aver creduto di derubare solamente le vittime, senza arrivare a cucinarne le carni. Risulta quindi chiaro come in realtà ad intessere le fila della narrazione sia unicamente il proprietario dell’albergo, un “burattinaio” che sapientemente istruisce a dovere le sue marionette.

Il film si conclude con lo sguardo della protagonista, sopravvissuta assieme alla figlia e di ritorno verso casa, volto verso il palazzo illuminato. Questa volta, però, la prospettiva appare ben diversa da quella iniziale.

Elisa Bo