L’AMORE È CIECO… MA NETFLIX CI VEDE BENE!

Sono convinta che per molte persone alcuni programmi televisivi siano una sorta di guilty pleasure: sai già che non ti arricchiranno, non avranno una storia innovativa alla base ma, per qualche strano motivo, ti trovi a guardarli senza riuscire a staccare lo sguardo. Un esempio può essere Love is Blind, nuova serie unscripted rilasciata da Netflix e piccola perla della tv trash, da non intendere come definizione in senso dispregiativo, ma come genere di tutto rispetto che si sta diffondendo sempre di più nei nostri schermi.

Finita l’ennesima serie, stavo vivendo quello che per molto tempo ho solo studiato sui libri, il paradosso della troppa scelta gentilmente offerto dal catalogo della piattaforma. Ho deciso, quindi, di affidarmi all’algoritmo e lasciarmi trascinare dallo “Scelti per te” dove queste 10 puntate mi stavano aspettando con il loro effetto calamita.

Esperimento sociale con elementi sia di The Circle che di Matrimonio a prima vista (con cui condivide la casa di produzione, la Kinetic Content ndr), vuole dimostrare che si può trovare l’anima gemella senza mai vederla di persona: gli incontri tra le coppie, infatti, avvengono all’interno di “pods” ovvero salottini comunicanti solo a livello sonoro. Dopo 10 giorni di chiacchiere, le varie coppie possono vedersi solo dopo la risposta alla fatidica domanda: “Will you marry me?”

È qui che, però, l’incantesimo si incrina: tutti i concorrenti sono di una bellezza irraggiungibile e, di conseguenza, restano piacevolmente sopresi dall’aspetto della propria dolce metà (tranne Jessica, ma lei è l’antagonista della narrazione). Dopo un viaggio romantico in Messico, le coppie si trasferiscono nello stesso condominio per avviare la loro vita assieme e conoscere i rispettivi familiari, il tutto nelle abbondanti quattro settimane che li separano dall’altare.

Ovviamente, ciò che accade è degno di ogni programma trash che si rispetti, segnato dall’eredità del mondo alla Jersey Shore: gelosie, feste, ubriachezza, dubbi sul futuro, reazioni esagerate e sapienti tagli di montaggio quando le cose si fanno troppo “intime”.

Ed è proprio questo, secondo me, l’elemento che rende Love is Blind un prodotto degno di nota (oltre alla parodia dell’SNL): il suo montaggio. Potrebbe essere un programma molto prevedibile, noioso e per nulla accattivante dato che, in fondo, il racconto di come due persone si conoscono e si innamorano è già stato mostrato in molti modi diversi e, invece, si dimostra godibile e piacevole.

Si nota la classica costruzione tra “vita vissuta” e “confessionale”, ma la quotidianità di questi sconosciuti è alternata su elementi sintonici o totalmente distonici con una semplicità che non fa percepire lo stacco di montaggio allo spettatore, quasi non si nota neanche il passaggio da un episodio al successivo. Da segnalare un cliffhanger da manuale tra il secondo blocco di episodi e il gran finale: per una settimana la risposta dello sposo resta in sospeso e lo spettatore è in attesa lì, sull’altare, assieme ai protagonisti.

La modalità di diffusione vuole ricreare quell’attesa tipica del mondo lineare: gli episodi non sono stati rilasciati tutti assieme, anzi, sono stati divisi in tre momenti diversi, ovvero la vita nei pods, la convivenza e il gran finale con i matrimoni (oltre ad uno speciale annunciato successivamente). 

Grandi complimenti vanno, inoltre, agli addetti al casting: hanno saputo trovare persone capaci di trasformarsi in personaggi narrativi. I “vincitori” si sono rivelati essere, però, coloro che hanno abbracciato in toto l’esperimento, partecipando senza sovrastrutture.

Guilty pleasure o meno, alla fine di questo esperimento resta una domanda in sospeso: l’amore è davvero cieco? Di sicuro non sarà uno show televisivo a dircelo, però si può rivelare un simpatico passatempo mentre si cerca la risposta definitiva.

Chiara Klein