In un periodo in cui il true crime sta spopolando a dismisura, non è un caso che Netflix abbia deciso di lanciare una serie ispirata alla vicenda di uno dei serial killer più famosi della storia: “Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer” è stata la serie Netflix più vista al mondo nel mese di ottobre 2022.
La serie si presenta come un lavoro cinematografico di alto livello sia per quanto riguarda il cast (con Evan Peters nel ruolo del protagonista) che a livello tecnico-narrativo: ciò che rende la sceneggiatura ambiziosa è la volontà di scavare nella psiche del serial killer, mostrandoci i fatti in modo oggettivo piuttosto che attraverso il suo punto di vista, per evitare che lo spettatore possa provare qualsiasi forma di empatia. Per fare ciò il regista ha utilizzato alcuni espedienti narrativi: le inquadrature iniziali che introducono Jeffrey allo spettatore non lo mostrano in volto, la prima cosa che vediamo di lui sono le mani insanguinate che reggono un coltello. Il regista inoltre ha scelto di omettere la popolarità di Dahmer tra i suoi coetanei, che lo descrivevano come carismatico e affascinante, presentandocelo invece come un outsider. Anche la scelta di non dedicare il primo episodio all’infanzia del protagonista bensì all’ultima delle sue vittime, Tracy Edwards, potrebbe essere letto come un tentativo di mantenere una certa distanza tra la figura del killer e lo spettatore. La volontà di comunicare il totale rispetto nei confronti delle vittime è manifestata anche dall’assenza di scene splatter, infatti le violenze commesse dal killer non vengono mai mostrate, ma lasciate solo intuire dallo spettatore.
Sebbene il regista non voglia presentare sullo schermo una figura abbellita di Dahmer, al tempo stesso non lo deumanizza. Pur mantenendo una certa distanza emotiva dal soggetto, lo spettatore ripercorre tutta la sua vita attraverso l’utilizzo di varie ellissi temporali, flashback e flashforward, che possono generare un senso di confusione e di disorientamento, sensazioni che in qualche modo si ricollegano a quelle provate dai familiari delle vittime. Non è un caso che quest’ultimi siano centrali nel racconto, in particolare negli ultimi episodi. Ciò è stato percepito da alcuni come il tentativo di trovare un fine morale al racconto della vicenda, definendo la produzione addirittura ipocrita: da un lato emerge la volontà di rispettare il lutto dei familiari, la quale probabilmente sta alla base della scelta stilistica di riprodurre quasi fedelmente il processo; d’altro canto le famiglie delle vittime non sono state informate o consultate durante la realizzazione della serie, il che è stato percepito come un’autentica mancanza di rispetto.
Sicuramente emerge una difficoltà narrativa e morale non indifferente nella scelta di portare sullo schermo una vicenda realmente accaduta e che ha traumatizzato in modo indelebile la società americana: bisogna tener in considerazione la reazione di chi ha sofferto quella vicenda e il rischio che il killer possa essere percepito in una chiave quasi mitica, piuttosto che come una figura complessa e problematica. Al tempo stesso però l’obiettivo principale della serie non è quello di screditare la figura di Dahmer, quanto quello di denunciare l’incompetenza delle istituzioni, l’ignoranza, il razzismo e l’omofobia che governavano l’America degli anni ’70 (e non solo). Non a caso la scena che apre la serie è dedicata a Glenda, la vicina di Jeffrey, la quale ha tentato più volte di avvisare le autorità, che avevano però sminuito le sue parole in quanto donna afroamericana. Il racconto dunque ci vuole porre di fronte ad una riflessione che va oltre il tentativo di comprendere cosa sia accaduto, ponendoci davanti a pericolosissime ingiustizie sociali ancor oggi attuali.
Sara Celona