Yvon Chouinard, celebre fondatore del brand Patagonia, ha recentemente annunciato di voler cedere la sua azienda per combattere il cambiamento climatico. Il brand da sempre si distingue per la sua propensione alla sostenibilità, ma la recente decisione del suo fondatore segna un momento storico per l’intera imprenditoria mondiale.
Yvon Chouinard fonda il brand Patagonia nel 1973 con l’intento di produrre abbigliamento sportivo da esterno professionale e di qualità. La caratteristica per cui Patagonia si distingue dagli altri brand di abbigliamento è la spiccata vocazione alla sostenibilità: «we are in business to save our home planet», recita la mission aziendale. La passione di Chouinard per la natura e la sua consapevolezza riguardo al cambiamento climatico hanno fatto sì che il brand fosse pensato fin dall’origine per essere eco-friendly e poco impattante. Nel 2012 inoltre, Patagonia diventa una società Benefit per certificare ulteriormente la sua missione ambientale e sociale.
Le iniziative improntate alla sostenibilità che hanno coinvolto il brand nel corso degli anni sono molteplici. Tra le più celebri troviamo le campagne pubblicitarie per il Black Friday (che incitavano a non comprare inutilmente), l’1% for the Planet, strategia che impegna l’azienda a donare l’1% delle vendite a gruppi ambientalisti locali e Worn Wear, un programma di riparazione di abbigliamento usato. L’impegno del fondatore nella lotta climatica arriva all’apice quando annuncia che cederà la sua compagnia a un fondo creato ad hoc e a un’organizzazione non profit; il tutto per far sì che da questo momento in poi i profitti aziendali vengano reinvestiti nella battaglia contro il cambiamento climatico.
«Invece di estrarre valore dalla natura e trasformarlo in ricchezza per gli investitori, useremo la ricchezza creata da Patagonia per proteggere la fonte di tutta la ricchezza», ha dichiarato Chinouard nel comunicato stampa che annuncia la cessione. Questa ricchezza non è di certo irrilevante: oggi il valore della compagnia si aggira intorno ai 3 miliardi di dollari, con profitti di circa 100 milioni di euro l’anno che, a seguito di questa decisione, saranno indirizzati completamente a progetti per la tutela ambientale. A cambiare non sono tanto le attività di business dell’azienda, quanto la sua proprietà: il 98% delle quote dell’azienda passa nelle mani di Holdfast collective, organizzazione non profit che reinvestirà i profitti extra per «combattere la crisi ambientale, proteggere la natura e la biodiversità e supportare le comunità», mentre il restante 2% andrà alla Patagonia Purpose Trust, istituto creato appositamente per assicurare il rispetto degli intenti del fondatore.
La scelta è senza ombra di dubbio un caso ammirevole di sostenibilità non solo ambientale, ma anche sociale ed economica: lo stesso Chouinard guarda al nuovo indirizzo aziendale promosso da Patagonia come una modalità di fare impresa che «si spera influenzi una nuova forma di capitalismo che non finisca con pochi ricchi e un mucchio di poveri». In questo caso, infatti, l’obiettivo ultimo della cessione è la salvaguardia ambientale: «l’unico azionista è il pianeta», recita il comunicato del brand.
Ma cosa accadrebbe se la stessa strada fosse intrapresa per incoraggiare cause controverse o, ad ogni modo, con ben altri ‘azionisti’? Lifegate, in un articolo di Valentina Neri, pone l’attenzione su questa criticità: la decisione del fondatore di Patagonia, seppur virtuosa, ci pone di fronte alla spinosa questione delle donazioni da parte di privati ad associazioni che perseguono finalità potenzialmente divergenti rispetto a quelle delle istituzioni democratiche. Non è questo il caso ma, forse, vale la pena cominciare a interrogarsi sul tema.