IL RUOLO DELL’IMMAGINE FOTOGRAFICA NEL CINEMA: IL CASO DE IL FIGLIO DI SAUL

Il figlio di Saul è un film ungherese del 2015 diretto da László Nemes. Il film ha vinto diversi premi e riconoscimenti, come il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes, il premio Golden Globe, il premio Oscar nella categoria miglior film straniero e nel 2016 anche il David di Donatello come miglior film europeo.

László Nemes fa di questo suo film di debutto una protesi per la memoria del trauma dell’Olocausto, legandolo indissolubilmente all’uso dell’immagine fotografica.

Il film ha come protagonista l’ebreo ungherese Saul Auslander che, deportato ad Auschwitz-Birkenau, viene reclutato nell’unità di Sonderkommando del campo e quindi obbligato a collaborare con le autorità nazionalsocialiste allo sterminio della sua gente. Isolati dai restanti deportati per impedire ogni fuga di notizie, i membri del Sonderkommando sono assoldati per rimuovere i corpi dalle camere a gas e poi cremarli.

Saul diviene così il testimone involontario di un orrore che non può, non riesce a raccontare: l’immagine è sfocata e lo spettatore non vede le camere a gas, i corpi, i forni, perché l’orrore è talmente grande da non poter essere né rappresentato, né ricordato. Il tema della memoria sembrerebbe così negato nel momento stesso in cui viene enunciato; tuttavia, il protagonista non rinuncia al suo compito e sviluppa il tema della memoria in modo del tutto originale, non come immagine visiva, ma come immagine morale. Se è vero, infatti, che esclude l’osservatore dall’orrore attraverso l’immagine sfocata, è altrettanto vero che cerca di evitare la cremazione e offrire degna sepoltura al corpo senza vita di un giovane ragazzo, in cui crede di riconoscere suo figlio.

Il luogo di sepoltura è un luogo di memoria. La sepoltura è un marcatore di tempo e di luogo, è un rito che dà la possibilità di ricordare, di rendere presente un’assenza. È per tale ragione che le lapidi sono solitamente corredate da fotografie. Andrè Bazin, un grande teorico del cinema degli anni ’50 del Novecento, parla nel suo saggio Ontologia dell’immagine fotografica (1945) del “complesso della mummia”, cioè del bisogno dell’individuo di cristallizzare il tempo e del conseguente annullamento mortifero dei corpi che si realizza mediante la fotografia e la lapide. Non a caso si è soliti dire: “Oggi vado a trovare mio padre” sottintendendo che si va al cimitero. La sepoltura crea presenza e la fotografia sulla lapide restituisce il volto del defunto.

Nel film di László Nemes, la fotografia del defunto viene sostituita dall’immagine del defunto, il giovane che Saul crede essere suo figlio, l’unico corpo di cui all’osservatore viene restituita un’immagine nitida. La missione del protagonista è quella di dare degna sepoltura al ragazzo per poterlo ricordare, elevando in questo modo un singolo corpo a simbolo dei corpi straziati di tutto il popolo ebraico.

Il ruolo dell’immagine fotografica e quello della memoria istaurano così un legame dialettico tra visibile e non visibile. Il non visibile è rappresentato dall’immagine sfocata, il visibile dall’unica fotografia fatta di nascosto ai corpi morti dei prigionieri da alcuni membri del Sonderkommando per testimoniare le atrocità subite catturando attraverso la macchina fotografica ciò che l’osservatore del film non può vedere.

L’immagine fotografica ha dunque il ruolo di raccontare la memoria di coloro che hanno vissuto il trauma slegandosi dall’immagine cinematografica e vivendo in modo autonomo: lo spettatore non vede ciò che Saul vede, anzi a dire il vero non vede neanche la fotografia ma solo l’azione fotografica, cioè lo scatto della foto da parte dei membri del Sonderkommando.

Il film assume così per estensione il ruolo della fotografia sulla lapide: testimonianza e prolungamento della memoria per le generazioni future che prendono atto dell’accaduto tragico senza parteciparvi dinamicamente.

Francesca Romana Tortora