“Il lavoro nobilita l’uomo” si è inclini ad affermare in tempi di crisi del mercato occupazionale, e poco o nulla nobilita maggiormente di un riconoscimento e di una riconoscenza per il lavoro ben svolto.
Dopo il brusco stop dettato dalle condizioni pandemiche, è tornato a Venezia l’evento Homo Faber di cui si è ampiamente e felicemente fatto un gran dire nell’ultimo mese. Ora che si è conclusa l’esperienza espositiva in esponente è possibile azzardare alcune considerazioni su quanto proposto da Fondazione Cini, in collaborazione con Michelangelo Foundation.
Anzitutto, dobbiamo al Covid-19 il fatto che la mostra si sia svolta — quasi — in parallelo al primo mese d’apertura della Biennale d’Arte, con la quale ha intessuto un rapporto indubbiamente simbiotico, dal momento che l’enorme afflusso turistico che quest’ultima procura alla città non può non aver contribuito in misura sostanziale agli ottimi numeri al botteghino raggiunti dalla mostra tenutasi a S. Giorgio.
Con essa si è inoltre delineato un legame che l’ha portata a definire il proprio spazio identitario, sia come altro rispetto all’artisticità conclamata della rassegna internazionale e dunque in opposizione ad essa, sia come arte in tono minore— quando non addirittura “popolare” — e quindi pur sempre in un rapporto di continuità con l’Arte dell’esposizione ‘madre’.
A ben vedere il confine, per lo meno linguistico, che separa la sfera dell’arte e quella dell’artigianato è stato scrupolosamente rispettato, se non addirittura rivendicato dalla stessa organizzazione che presiede l’evento.
Se, infatti, si visita il sito web dell’evento, né il termine “arte”, né tantomeno “artista”, compaiono mai lungo l’arco della esposizione del progetto museale, di contro, la tensione polare tra questa latenza e i persistenti richiami all’ambito manifatturiero si esaspera nella realizzazione di un michelangiolesco dito creatore che vuole «celebrare la mano umana», opera che non a caso è stata scelta per essere inserita nel sito web e dunque come “copertina” della mostra stessa.
La relazione si fa dunque scoperta e assume i tratti di una riaffermazione vera e propria. Purtuttavia, risulta altrettanto chiara ed evidente l’intenzione di allestire un ambiente artistico nel significato più ampio del termine, di conseguenza progettando l’esperienza come un’esperienza estetica, non solo ovviamente, per quanto concerne i prodotti del lavoro d’artigianato, ma come un’organizzazione spaziale che ricalca le modalità proprie delle esposizioni d’arte contemporanea.
Tacitamente, dunque, gli organizzatori rimettono al consensus del critico meno affidabile e più severo l’attribuzione dello status che qualifica l’esposizione: poco importa che uncospicuo numero di visitatori sottoposti in entrambi gli spazi espositivi (Biennale d’Arte e Homo Faber) alla medesima esperienza estetica finiscano per riconoscere nel prodotto e non in quest’ultima l’artisticità della mostra.
È indubbia la generale indeterminatezza caratterizzante lo status dei manufatti, forti da un lato di proprietà plastiche che rientrano nelle categorie intellettuali di “tekné”, “perfezione”, ecc. e dall’altro dal progressivo distacco procurato dall’arte delle avanguardie e sedimentatosi nell’opinione pubblica in una misura tale che l’arte contemporanea non è ancora riuscita a colmare.
Perciò non riesce difficile comprendere come i visitatori approccino l’esposizione come una mostra d’arte, vedendo poi riconfermate le loro aspettative nell’organizzazione esperienziale complessiva così come progettata dai designer delle rispettive fondazioni.
Gli interessi delle parti in causa (pubblico e artigiani) si saldano nella massima sapienziale tractent fabrilia fabri, lasciando ai critici l’arduo compito di discriminare ciò che è arte e ciò che non lo è, con buona pace degli stessi quando il loro giudizio non viene più preso in considerazione.
Giulio Montagner