Al giorno d’oggi, sono innumerevoli le iniziative portate avanti dai brand a sostegno di cause etiche e sociali. Molto spesso, queste cause vengono promosse soprattutto in specifiche giornate come, ad esempio, l’8 marzo, ovvero la Festa delle Donne.
Pinkwashing è una parola formata dalla crasi tra “pink“, rosa, e “whitewashing“, letteralmente imbiancare o nascondere. Pertanto, si potrebbe tradurre con un’espressione tipo “nascondere con il rosa”, indicando cioè l’azione di molti brand che “coprono di rosa” i propri prodotti per mostrarsi attenti a delle cause da cui in realtà cercano solo il guadagno. Si tratta, quindi, di un atteggiamento apparentemente solidale verso tematiche che riguardano l’universo femminile, ma non solo.
Il termine nasce sulla scia del greenwashing ed è stato utilizzato per la prima volta intorno agli anni 2000 dalla Breast Cancer Action con il progetto Think Before You Pink, il cui motto era “stop banking on breast cancer”: un invito a smettere di arricchirsi e lucrare sul tema del tumore al seno. Il progetto è nato per denunciare quelle campagne di marketing che promuovevano prodotti di vario genere con il cosiddetto “pink ribbon”, ovvero il classico fiocchetto rosa.
Il concetto di pinkwashing, dunque, cerca di sfatare quelle azioni mosse non da interessi etici e sociali bensì da interessi economici, con lo scopo di catturare l’attenzione di quei consumatori che, condividendo determinate cause, acquistano prodotti contrassegnati dal fiocchetto rosa, determinandone un successo in termini di vendite. Il pinkwashing, infatti, fa leva su un diffuso senso civile di carattere inclusivo.
Il termine viene anche utilizzato in riferimento alla comunità LGBTQ+, prendendo il nome di rainbow washing, dati i colori dell’arcobaleno della bandiera rappresentativa della comunità. In questo caso i brand giocano sulla promozione di una visione gay-friendly, che risulta essere accattivante per il pubblico. Si gioca, cioè, sulla benevolenza del pubblico, mostrandosi solidali nei confronti di tematiche molto importanti, oggi più che mai.
Le maggiori critiche rivolte a questi trend, pertanto, riguardano la mercificazione di temi così significativi. Ma vediamo qualche esempio.
Nel 2001, la nota azienda produttrice di cosmetici Avon ha lanciato una campagna dal titolo “Kiss Goodbye to Breast Cancer”tramite la vendita di una nuova gamma di rossetti, i cui proventi sarebbero stati devoluti alla lotta contro il tumore al seno. Tuttavia, la composizione chimica di questi rossetti vedeva la presenza di parabeni, sostanze cancerogene particolarmente utilizzate nella cosmesi.
Nel 2010, la famosa catena di fast food statunitense KFC ha annunciato una partnership con Komen, un’importante associazione che si occupa di lotta contro il cancro al seno. Tuttavia, i soldi erano stati già devoluti dall’azienda prima della campagna di marketing. Tutto il ricavato della vendita dei secchielli rosa andò, quindi, semplicemente ad accrescere le casse di KFC.
E ancora, nel 2018, il brand irlandese di abbigliamento low cost Primark ha dato vita ad una collezione dal titolo “Pride”. Per l’occasione, parte del ricavato delle vendite sarebbe stata donata a Stonewall, un’associazione britannica paladina del diritti LGBTQ+. L’accusa rivolta al brand, però, fu quella di aver fatto produrre i capi della collezione in paesi del mondo in cui i diritti di questa comunità sono fortemente limitati.