ITALIAN SOUNDING: COS’È E PERCHÉ DORVEMMO PREOCCUPARCENE

L’Italian Sounding non è certo un fenomeno recente: si fa risalire la sua nascita alle migrazioni di massa che hanno visto popolarsi gli Stati Uniti di intere famiglie di Italiani. Stabilitesi a migliaia di chilometri da casa, dalle proprie radici e tradizioni – una su tutte il mangiar bene tipico del Belpaese – nel cercare di preservare la propria identità culturale sono nate esotiche Pizzerie, business di caciotte e mozzarelle di bufala da portare sulla tavola imbandita da pranzo domenicale, aromatici vini rossi con etichette di uomini con baffi laccatissimi.

Premesse genuine di un fenomeno commerciale senza precedenti: il Made in Italy, lo status symbol del “vivere all’italiana”, hanno determinato la produzione in massa di alimenti di ispirazione e sembianze italiane. Intendiamoci: le tradizioni sono dinamiche e si plasmano nel tempo, soprattutto in un mondo multietnico come il nostro; l’Italian Sounding non vede nell’esportazione della cultura enogastronomica del nostro Paese una minaccia in termini di appropriazione culturale, ma il concorrere slealmente nelle esportazioni danneggiando il Made in Italy.

Citando Federalimentare, infatti: «[L’Italian Sounding] costituisce una delle principali cause della ridotta incidenza dell’export italiano sul fatturato (poco meno del 20% per l’Italia, contro una media europea del 22% e contro il 26% di Francia e il 28% di Germania), perché consente ad alcune aziende locali di avere un vantaggio competitivo che non meritano, producendo a prezzi più bassi ma collocando il prodotto su fasce superiori di prezzo grazie al richiamo all’italianità».

È spontaneo sorridere incappando nei video di YouTuber statunitensi colti nell’atto di scaldare tristi scatolette di “Spaghetti Carbonara”, cui aggiungere del petto di pollo e una spolverata di “Parmesano” – ma il peggio non è questo!

Parlare di danno economico sugli export non restituisce una visione completa della lesione arrecata al Made in Italy come brand: prodotti qualitativamente mediocri, realizzati secondo processi e con materie prime spesso lontanissimi dalla tradizione, contribuiscono a demolire il mito dell’italianità e ad intaccare la brand image di un Paese storicamente apprezzato per i prodotti del territorio.

Marchi registrati, loghi, denominazioni di origine protetta non possono arginare del tutto il problema, non quando l’”italianità”, come insieme di asset intangibili è entrata a far parte dell’immaginario collettivo al punto che un prodotto come “Fontiago Cheese” – che formalmente non vìola alcuna regola in termini di false denominazioni e agropirateria – dà immediatamente l’idea di essere il celebre formaggio italiano che, come tale, verrà acquistato, soprattutto perché meno costoso dei competitor.

Se immagino bene, a questo punto il sarcasmo dovrebbe aver lasciato il posto ad un sincero senso di frustrazione. Non siamo nemmeno lontanamente sulla strada del contenimento dell’issue: dati di Federalimentare alla mano, il fenomeno è cresciuto del 180% tra il 2000 ed il 2010. Servono nuovi accordi con la GDO in senso sovranazionale: quando un brand devia rispetto alla propria value proposition, la crisi è dietro l’angolo.

Isabella Leto