Tokyo, Giappone: per i tre amici Arisu (Kento Yamazaki), Karube (Keita Machida) e Chōta (Yûki Morinaga) è una giornata come tante. La monotonia delle loro vite si interrompe improvvisamente quando sulla piazza di Shibuya cala un totale e inquietante silenzio: milioni di cittadini sembrano essere svaniti nel nulla. Questo è l’incipit di Alice in Borderland.
La serie tv, live-action di stampo giapponese, è ispirata all’omonimo manga di Haro Aso ed è stata distribuita da Netflix a partire dal 10 Dicembre 2020. La storia ruota attorno a un meccanismo simile a quello di Hunger Games: in una Tokyo deserta e apparentemente isolata dal resto del mondo, i pochi superstiti si ritrovano per partecipare a una serie di giochi mortali. Alla fine di ogni partita nelle varie game arena, i vincitori ricevono una carta da poker: i semi indicano una tipologia diversa di gioco e i numeri rappresentano il grado di difficoltà. Nello specifico, i fiori indicano game di squadra, i quadri quelli d’astuzia, le picche quelli basati sulla forza fisica e i cuori quelli in cui, letteralmente, si gioca con il cuore delle persone (tradendo anche la fiducia dei propri amici pur di sopravvivere).
Il titolo è un chiaro riferimento ad Alice in Wonderland di Lewis Carroll: non a caso, il nome di uno dei protagonisti (Arisu) suona proprio come la pronuncia giapponese di “Alice”. Lo stesso si potrebbe dire anche di Shuntarō Chishiya (Nijirô Murakami), personaggio secondario soprannominato “Cheshire”, nome originale dello Stregatto. Infine, un ulteriore ed evidente richiamo alle avventure di Alice è la carta da gioco come elemento preminente in tutta la storia.
Al di là di queste piccole curiosità, Alice in Borderland si configura come una serie interessante che tenta, al meglio delle sue possibilità, di coniugare la tipica cultura giapponese con lo stile di regia americano per risultare “appetibile” anche agli occhi del pubblico occidentale: ciò che scaturisce da questo connubio è un prodotto ben confezionato, con elementi (soprattutto dal lato della recitazione) che ricordano sicuramente i tradizionali Dorama – i drama giapponesi – ma con evidenti sconfinamenti nelle tecniche produttive hollywoodiane. Grande spazio è riservato, più che alla caratterizzazione dei personaggi, allo sviluppo della trama attraverso i pericolosissimi game: in quell’ottica di engagement resa possibile dal fatto che su Netflix si disponga della facoltà di interrompere la puntata in qualsiasi momento, anche lo spettatore (se lo desidera) è invitato a fermarsi per provare a risolvere gli enigmi proposti ai personaggi. Su questo punto la critica si è divisa: c’è chi pensa che la serie debba soffermarsi maggiormente sullo sviluppo del suo cast principale e chi ne loda le scelte di regia e l’utilizzo della violenza grafica, paragonandone lo stile a quello del celebre Saw (non a caso, un film americano). Detto ciò, un consiglio spassionato è proprio quello di non affezionarsi troppo ai protagonisti.
Dopo sole due settimane dalla sua uscita, Alice in Borderland è stata già rinnovata da Netflix per una seconda stagione – quest’ultima debutterà sulla piattaforma auspicabilmente verso la fine del 2021 (oppure a inizio 2022). Una nota importante per chiudere l’articolo: la serie è pienamente accessibile anche a chi non abbia mai letto il manga dalla quale è tratta.