L’espressione Overtourism indica il sovraffollamento di città e luoghi a causa del turismo, quindi la scarsa capacità di Paesi e città di gestire i flussi per via dell’insufficiente numero di strutture di hospitality. La pandemia di Covid-19 ha frenato l’eccessiva (e sfrenata) modalità di viaggio, lasciando spazio ad un nuovo modo di esplorare: l’Undertourism.
Negli ultimi decenni si è registrata globalmente la voglia di viaggiare per le capitali del mondo e scegliere destinazioni gettonate a causa dell’incredibile numero di tariffe low cost, ma anche la transizione da una visione local ad una visione global. Tuttavia, il numero increscioso di viaggiatori accalcati tra le vie delle mete turistiche più famose, oltre a rappresentare un vero toccasana per le economie e la reputation dei Paesi, nasconde delle conseguenze piuttosto negative, come la congestione dei trasporti pubblici, l’impatto non più sostenibile sull’ambiente, l’insufficienza di adeguate strutture di ricezione e le attese interminabili in fila per i luoghi d’arte: insomma, un vero e proprio caos che evidenzia la saturazione del sistema turistico di massa.
Il turismo, che è sempre stato un settore piuttosto solido, ha costituito negli ultimi anni il 13% del PIL italiano e, stando alle parole di Marco Massai riportate in questo articolo, tra il 2018 e il 2019 si è registrato un numero di 426 milioni di pernottamenti in un solo anno, con oltre 40 miliardi di spese per i viaggiatori internazionali.
Inoltre, grazie alla sensibilizzazione da parte delle istituzioni e dei media, è avvenuta una vera presa di posizione (e coscienza) da parte dei viaggiatori. Si è parlato di turismo responsabile e sostenibile (quindi ambientale), che si è imposto seguendo i principali trend di giustizia sociale ed economica, e di turismo esperienziale, per cui ciò che conta è l’esperienza in sé, vivere dei momenti da raccontare. Tra le altre, si è anche affermata l’espressione Undertourism, che abbraccia tutte queste accezioni dell’esperienza del viaggiatore, con lo scopo di disincentivare l’incoming in Paesi con un’elevata attrattività.
La transizione da Overtourism a Undertourism viene vista quasi come obbligatoria, contando che i Paesi promuovono politiche di governance (e anche di comunicazione) piuttosto efficaci per la sostenibilità ambientale: si pensi alle not hot lists, veri e propri elenchi che promuovono delle località uniche e inesplorate, oppure alla Oslo Brand Alliance, joint venture norvegese tra aziende pubbliche e private, che nel 2017 aveva lanciato una campagna per attrarre i turisti in Norvegia e lasciar respirare le capitali del turismo internazionali, o anche alla città di Barcellona che anni fa aveva invitato i turisti a non dire a nessuno di essere stati a Barcellona.
A questo, si aggiungono le conseguenze dettate dalla pandemia: il settore ha subìto uno stop ancora difficile da digerire (d’altronde, le immagini delle città deserte di tutto il mondo sono ancora motivo di angoscia e incredulità nell’immaginario collettivo di tutti). Eppure, quando le restrizioni si sono fatte meno intense, sono stati molti coloro che hanno scelto di esplorare località e paesaggi più vicini alle proprie case. Si è diffuso un nuovo modo di pensare al viaggio: la crescita del turismo di prossimità (quello che ci proietta verso mete già visitate, per conoscerne e riscoprirne le bellezze), l’interesse verso la cultura, le prenotazioni last second…
Secondo molti esperti, l’adozione di uno stile di viaggio volto all’Undertourism esalterà le realtà locali e minimizzerà l’impatto sull’ambiente. Per questo, la nuova sfida dovrà essere colta proprio dai ricettori, che dovranno rafforzare la propria vision strategica (e il proprio brand positioning), investire in campagne di marketing one-to-one, sfruttare la digitalizzazione (citando Bill Gates, “Nel ventunesimo secolo ci saranno due tipi di imprese: quelle che sono su internet e quelle che non esistono più”) e soprattutto costruire un’offerta unica per attrarre i clienti.
Alessia Sabrina Natalino