E’ terrorizzato da insetti, colori brillanti, cervi, strapiombi, dalla folla, dal sole e dal cancro. Woody Allen ha passato più di trent’anni in psicoanalisi. Inizia presto, nel 1959, poiché inizia a sentirsi malinconico senza saperne il motivo. Da quel momento la terapia diventa un appuntamento fisso, una volta a settimana. Allen ha saputo utilizzare in modo positivo la sua esperienza psicoanalitica; nei suoi film si riesce ad intravedere il suo percorso interiore. Nonostante il suo utilizzo comico della psicoanalisi, Woody Allen non l’ha mai svalorizzata.
Il cinema tende a dare un’immagine negativa dell’analista dipingendolo come una figura insicura, fragile, coinvolto in relazioni amorose con le sue pazienti. Woody Allen segna una svolta nell’uso che fa della psicanalisi all’interno dei suoi film poiché abbatte il cliché cinematografico dello psichiatra inaffidabile e folle. Mette in scena tramite lo strumento della risata, un rapporto terapeutico reale e mostra che l’analisi funziona e che può cambiare in meglio le persone. Allen ha sempre fatto dell’ironia, e soprattutto dell’autoironia sull’argomento, in stile: «Facendo la psicoanalisi, risultò che tendevo al suicidio. Mi sarei ucciso ma… il mio psicanalista era freudiano rigido e quelli se ti ammazzi, te li ritrovi con la parcella in mano fin dentro al loculo». Allen è l’autore che forse più di tutti ha fatto della costruzione dei personaggi mediante dinamiche psicoanalitiche il suo marchio di fabbrica, mostrando i processi psicologici dell’io. I suoi film, infatti, hanno il tratto comune di toccare diverse tematiche freudiane come il sesso, la figura materna determinante per lo sviluppo del figlio e la dipendenza affettiva.
Sin dai primi anni 70, dai tempi di Prendi i soldi e scappa, ha descritto in modo grottesco gli strizzacervelli e facendo così ha mostrato che non è così grave andare in analisi. Allen non ha solo preso in giro la categoria, ma anche il paziente medio americano immerso nella borghesia contemporanea, animato da interessi economici e che fa innumerevoli sedute che ritiene inefficaci rispetto ai drammi della vita.
Ma da dove nasce questa sua fissazione per l‘argomento? I film di Woody Allen sono molto autobiografici e come ci racconta lui stesso in numerose interviste e recentemente in A proposito di niente, suo ultimo libro, sono tutti caratterizzati da personaggi nevrotici, che spesso ritraggono le nevrosi che l’hanno accompagnato per periodi di vita. Io e Annie, vincitore di 4 Premi Oscar, è un film in cui il protagonista, lasciatosi con Annie (Diane Keaton), narra la storia della loro relazione, dall’inizio felice al deterioramento che porta alla fine. Analizza quali siano i motivi e le problematiche psicologiche, come la sua depressione e nevrosi possano aver influito di più nella loro storia. Il regista realizza un vero percorso psicoanalitico, proietta il suo inconscio all’interno dell’opera, creando protagonisti che possiedono le sue fobie e nevrosi.
Inoltre, le nevrosi di Allen si possono ritrovare anche nel fatto che, non a caso, ama lavorare sempre con le stesse attrici. Senza poi dimenticare l’intricata vicenda della separazione tra Farrow e Allen, in cui entrambi si sono comportati in modo alquanto bizzarro: la Farrow, che non può fare a meno di adottare numerosi bambini stranieri e lui che si mette con la figlia adottiva e viene accusato di molestie verso un altro figlio.
Allen è uno di quei personaggi che divide il pubblico: chi lo ama e chi lo odia. Eppure è uno dei cineasti che meglio ha saputo dipingere personaggi realistici e sviluppare intrecci coinvolgenti dal punto di vista psicologico.
Giulia Notari