Il 2020 potrebbe essere definito con una semplice parola: infodemia. Il Covid-19 ha generato un’overdose comunicativa caratterizzata da fake news, opinioni discordanti e statistiche piuttosto ermetiche. Come orientarci in questa giungla di informazioni e dati? Ne parliamo con Lorenzo Pregliasco, Direttore di YouTrend.
Il flusso costante di informazioni in merito al Covid-19 ha lasciato i cittadini incredibilmente disorientati. Quali sono i grandi errori commessi dai media?
Un grande errore è rintracciabile nell’eccessiva presenza di esperti nei vari programmi televisivi; questo ha dato ai media la possibilità di non fare un lavoro di informazione con vere e proprie verifiche, ma semplicemente di dare voce a figure autorevoli. Inoltre, il bisogno di inseguire la notizia più sensazionalistica ha generato un incessante stato di confusione. Dovremmo riconoscere anche le falle nella comunicazione istituzionale, caratterizzata da un continuo rincorrersi di ipotesi di misure nel giro di pochi giorni o addirittura poche ore.
La pandemia ha fatto avvicinare un’ampia maggioranza di cittadini alle statistiche: nel 2020 ha percepito un incremento di fruitori sui profili social di YouTrend?
Quest’anno chiunque faccia informazione ha dedicato una parte dei contenuti alla pandemia e questo è valso per testate giornalistiche così come per singoli analisti. Si è visto sicuramente un incremento di persone preoccupate e incuriosite che hanno fatto affidamento su di noi come fonte di analisi della situazione dal punto di vista dei dati.
I numeri non mentono, eppure è facile incappare in commenti negazionisti sotto i vostri post: da cosa dipende questa cieca diffidenza che sovrasta persino la sacralità dell’analisi matematica?
Mi piace pensare che siano fenomeni limitati. In molti casi c’è un tentativo di cercare spiegazioni alternative per fatti piuttosto chiari e gli esempi sono molteplici, dalla mortalità del Covid ai risultati delle elezioni americane. Questo non ha a che fare con il dato ma con la predisposizione mentale ad accettare le informazioni che vengono fornite. Si tratta di un problema perché ci sono figure di riferimento che cavalcano apertamente questi dubbi per costruirsi un capitale politico o una base di credito pubblico. Questo è il caso più triste, quando non è l’utente anonimo su Twitter a sparare un’idiozia ma un primario o un giornalista irresponsabile.
Volente o nolente i dati sono al centro della nostra quotidianità, ma manca una linea guida per comprenderli. Come dovrebbe interpretarli un fruitore inesperto?
Come primo consiglio darei quello di non guardare un unico indicatore. Questa pandemia ci ha dimostrato che si compone di tante variabili caratterizzate da tempistiche evolutive differenti e spesso, focalizzandoci su un unico dato, osserviamo solo una parte della vicenda. Nella fase di settembre appariva evidente una crescita imponente delle ospedalizzazioni e in quel momento guardare i decessi era poco indicativo, non riflettevano ancora ciò che sarebbe accaduto a novembre con quasi mille morti al giorno. Un secondo consiglio è chiedersi in che modo vengano raccolti i dati e quali possano essere i loro limiti, proprio perché ci sono delle difformità nella loro raccolta a livello regionale.
Proviamo a fare delle previsioni: superata la pandemia il data journalism manterrà una posizione rilevante anche tra i lettori meno esperti?
È possibile che una quota di lettori interessati principalmente al fenomeno pandemico ci abbandoni, ma altri potrebbero essersi abituati all’informazione basata sui dati. Sono fiducioso. Nel complesso questa è stata una buona vetrina per compiere analisi di qualità su testate popolari come Il Sole 24 Ore, Financial Times o El País, grandi realtà che hanno coinvolto analisti indipendenti rendendoli parte del dibattito pubblico con contenuti di alto livello.
Serena Curci