Rivoluzionaria e soprattutto digitale: è la quarta “ondata” di femminismo, che, grazie alla sua universalità, riscrive la natura del movimento ormai secolare rendendo la lotta femminista sempre più accessibile e democratica.
Il femminismo dell’era digitale si intreccia alle dinamiche social, inserendosi all’interno delle logiche delle piattaforme che hanno rivoluzionato il paradigma comunicativo grazie alla grandissima visibilità e alla dimensione dello sharing. Il femminismo 2.0, secondo la scrittrice Kira Cochrane, apre le porte al dialogo e allo scambio in quanto sempre più inclusivo e collaborativo. I social media hanno infatti semplificato l’accesso all’informazione rendendo più efficace la divulgazione e ridefinendo le prospettive del dibattito femminista che diventa maggiormente radicalizzato e istantaneo.
Ma facciamo un salto indietro nel tempo: la prima wave ha inizio il 4 giugno 1913, giorno in cui la suffragetta Emily Wilding Davison fu uccisa dalla polizia durante una protesta per il diritto di voto. La seconda ondata degli anni ’70 allarga il dibattito: sessualità, aborto e diritti civili sono i primi passi (da gigante) verso l’emancipazione femminile. La terza ondata, animata principalmente da attivisti neri, lesbiche e disabili, porta con sé il concetto di intersezionalità, la sovrapposizione di “stati di oppressione” diversi tra loro ma interconnessi. Con la rapida ascesa delle piattaforme digitali tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, l’eco femminista raggiunge, per la prima volta, un pubblico globale.
Il Web viene utilizzato come strumento di mobilitazione di massa, un’enorme cassa di risonanza, che permette la creazione di un femminismo libero, disinibito e senza barriere che affronta tematiche variegate: dalla rivendicazione dei diritti della comunità LGBTQ+, allo scongiurare episodi di revenge porn, passando per la lotta al linguaggio sessista insito nelle narrazioni dei media e alla cosiddetta “cultura dello stupro”.
Il femminismo social sfrutta le piattaforme digitali dando vita a forme di protesta e di attivismo sempre più creative ed audaci. Un esempio emblematico che ha riscosso un grande successo è l’Everyday Sexism Project, una piattaforma social lanciata nell’aprile del 2012 da Laura Bates, dove ogni persona può condividere la propria storia personale di gender inequality. Lo scopo del sito è quello di dare voce alle vittime di episodi di sessismo e di violenza, creando una rete di solidarietà, attraverso la raccolta di testimonianze quotidiane provenienti da tutto il mondo. Il sito si struttura come un forum aperto, dove ognuno ha la possibilità di inserire e di condividere la propria esperienza e di parlare apertamente, anche in forma anonima, delle molestie subite. L’obiettivo del progetto, afferma Bates, «non è mai stato quello di risolvere definitivamente il problema del sessismo, bensì quello di convincere le persone ad intraprendere il primo passo per poter rendersi conto che esiste effettivamente un problema che richiede una soluzione».
Oggi il sito, che ospita più di 80 mila testimonianze, permette di dare una voce alle vittime fornendo loro una piattaforma e portando alla luce episodi che sarebbero altrimenti ignorati dall’opinione pubblica. Nel 2019, in seguito ad una brillante – e necessaria – campagna di sensibilizzazione pubblica portata avanti dalla stessa Bates, il governo inglese ha finalmente annunciato che questioni come il consenso e l’educazione alle relazioni e al sesso saranno integrate nel curriculum di educazione sessuale in tutte le scuole del Regno Unito.
L’avvento del digitale rivoluziona completamente il panorama del movimento ridefinendone gli obiettivi che si propagano in maniera esponenziale, dando il via ad una vera e propria rivoluzione femminista social.