IL SILENZIO DELLA PALUDE – TRA CANNE CORROTTE E ANGUILLE ASSERVITE

Valencia non è una città marittima, non lo è mai stata. Di fatto è una città fluviale sorta su un’enorme palude. (…) Oggi la palude non si vede più da nessuna parte ma questo non significa che non esista. È ancora là fuori, solo un po’ più in basso. Come un cadavere seppellito male, zeppa di anguille e di canne”.

Sono queste le parole con cui si apre un film crime che ha tutte le caratteristiche di un thriller psicologico, l’ultimo di una serie di produzioni spagnole sempre più frequentemente lanciate da Netflix sulla scia del successo de La casa di carta. Diretto da Marc Virgil e nato dalla collaborazione di Netflix con Zeta Cinema e RTVE, Il silenzio della palude (titolo originale El silencio del pantano) si ispira all’omonimo libro di Juanjo Braulio, pubblicato nel 2015, ed è stato presentato in anteprima assoluta al Festival del Cinema Europeo di Siviglia a fine 2019.

Nel duplice ruolo di protagonista e voce narrante troviamo Pedro Alonso – noto al grande pubblico per aver indossato i panni dell’amatissimo Berlino nella sopracitata La casa di carta – che sullo sfondo di una Valencia degradata e corrotta interpreta Q, affermato giornalista e scrittore di polizieschi. È proprio dalle prime inquadrature, in cui lo vediamo alla presentazione del suo nuovo romanzo, che scaturisce l’ambiguità strisciante che permeerà l’intero film: Q racconta della malavita, di violenza e omicidi sanguinosi che sembrano rispecchiare la sua stessa vita, di un uomo che uccide “perché può”.

Tanto affabile con i suoi fan quanto spietato e calcolatore nel privato, per attingere a nuovo materiale per il proprio libro Q indaga in solitaria sulla criminalità che affligge Valencia, finendo per rapire e uccidere Ferrán Carretero, professore di economia ed ex politico coinvolto in riciclaggio di denaro sporco e traffico di droga. Con la sua sparizione si apre il vaso di Pandora: Q accosta l’immagine della palude alla città di Valencia e mostra quanto il degrado abbia radici profonde, in un circolo di corruzione che va dai quartieri più disagiati (metaforicamente la melma e le anguille) fino alle più alte istituzioni politiche (le canne della palude). Di fronte a questo, Q si arrende all’evidenza dell’impossibilità di sradicare completamente un canneto dal terreno acquitrinoso in cui stagna, e si lascia giustiziare da un criminale sulle tracce di Carretero, osservando stoicamente la palude davanti a sé.

Il film si chiude in un moderno appartamento nel quale Q sta finendo di scrivere il proprio libro, scena emblema dell’ambiguità che accompagna lo spettatore per tutta la visione: cosa era realtà e cosa finzione? Era tutto un trucco per ammaliare i lettori o c’era un fondo di verità negli omicidi commessi da Q? Di fatto non c’è modo di dipanare la confusione volutamente determinata dal finale, poiché a causa del filtro imposto dal punto di vista del protagonista risulta impossibile discernere il vero (Q che scrive e uccide solo “come autore”) dalla finzione (Q che uccide realmente).

Confusione a parte, la sensazione post-visione è che nonostante le ottime premesse Il silenzio della palude non sia riuscito ad esprimere tutto il proprio potenziale, come confermato dalle recensioni contrastanti ricevute dalla critica: l’affascinante introspezione di Q e le azzeccatissime location non riescono a sopperire al poco delineato background della maggior parte dei personaggi e soprattutto alla complessiva mancanza di incisività della critica sociale. In definitiva, una maggiore profondità della realizzazione e una migliore elaborazione avrebbero certamente reso più avvincente un progetto tanto ambizioso e sofisticato come quello de Il silenzio della palude, che lascia un po’ l’impressione di non aver osato abbastanza.

Paola Galbusera