BIG E OPEN DATA: QUAL È IL LORO RUOLO DURANTE L’EMERGENZA DA COVID-19?

Come possono esserci utili i dati nel combattere la pandemia globale da COVID-19? Qual è il loro ruolo, dal punto di vista sociologico e politico, nella comunicazione?
Abbiamo avuto il piacere di parlarne con il Professor Matteo Tarantino, docente di media e reti sociali.

Pensando all’epidemiologia computazionale e ad alcune piattaforme come Epirisk.net secondo lei quale ruolo possono giocare, in una pandemia globale, i big data?

In primo luogo, è importante distinguere tra un livello istituzionale dell’uso dei big data e un altro livello dove gli open data sono orientati alla comunicazione verso la popolazione.
Dal punto di vista istituzionale è possibile costruire modelli di rischio previsionali utilizzando big data misti: dati epidemiologici congiunti a dati relativi ai comportamenti individuali. Tuttavia, per quest’ultimo tipo di dati vanno previste delle garanzie e delle deroghe che concernono l’ambito prettamente giuridico.
L’altro aspetto invece riguarda gli open data e la loro comunicazione. Stiamo assistendo ad una diffusione massiccia di dati sull’epidemia, facilmente accessibili online. Se da un lato questa pratica serve a rassicurare la popolazione, secondo il principio per cui la trasparenza riduce il conflitto perché aumenta la partecipazione. Dall’altro è necessaria per fornire agli organi di informazione il materiale per portare avanti la loro attività. Tuttavia, tale diffusione di open data presenta una problematicità intrinseca, proliferano infatti tutta una serie di letture alternative, le quali, soprattutto all’epoca dei social media, possono facilmente diventare virali. E queste, in ultima analisi, erodono la capacità della lettura ufficiale di stabilirsi come discorso dominante, conseguentemente viene dunque meno anche la possibilità di rassicurare la popolazione. 

Cos’è secondo lei che il grande pubblico fatica a capire nell’utilizzo dei propri “dati personali” ai fini della ricerca scientifica? E secondo lei qual è il limite lecito da non superare? Mi riferisco in particolare alla questione di privacy e raccolta dei dati relativi all’emergenza Covid-19.

Quando si far riferimento ad un uso dei big data per la sorveglianza degli individui questa questione ha due facce. Da un lato una questione culturale e sociologica: è complesso accettare per le persone una imposizione di cambiamenti, così radicali e repentini, nel proprio spazio pubblico e privato.
Dall’altro lato entra in gioco la dimensione politica, iniziare un regime di sorveglianza elettronica è sicuramente un grossa responsabilità da assumersi, la quale nella prossime tornate elettorali potrebbe diventare qualcosa di stigmatizzante. Quale stato europeo vuole prendersi per primo questa responsabilità?
Infine, è importante sottolineare una sostanziale differenza con il sistema sudcoreano , il quale non si basa sulla sanzione ma sulla visibilità pubblica, ovvero ti fa vedere se abiti vicino a persone infette, dove si sono spostate e così via. Quindi non si tratta di sanzionare la persona ma è quest’ultima che teme la visibilità dei suoi comportamenti. Noi, rispetto alle culture confuciane, abbiamo un’idea della vergogna pubblica molto meno sviluppata.

Secondo lei un approccio data-driven può essere utile per combattere la disinformazione e le fake news, visto che in questo momento i media stanno avendo un ruolo così importante?

Un approccio data-driven è l’unico modo per combattere le fake news ma è anche il peggior nemico dello stabilirsi di una lettura univoca e ufficiale. Questa questione dell’ambivalenza degli open data è un problema a cui non abbiamo ancora trovato soluzione, se non si hanno le competenze adeguate a leggere i dati, o si hanno fini distorti, grazie ai social media queste “contro letture” posso arrivare ad un pubblico molto vasto in pochissimo tempo. I contenuti di Facebook, che stiamo in questo momento analizzando come Dipartimento, ci dimostrano proprio la presenza di molte opinioni contrastanti.
Questo ci fa capire, come fin dall’inizio, le Istituzioni hanno fallito su scala mondiale nello stabilire e nel mantenere un discorso dominante. Quindi, più che rispetto alle fake news questa pandemia sta dimostrando la difficoltà nel costruire e mantenere frames dominanti

I dati urbani possono essere utilizzati per combattere l’epidemia da COVID-19? Se sì, in che modo?

I dati urbani sono una famiglia di dati molto eterogenea. Questi, relativamente all’epidemia da COVID-19, possono esserci utili nel costruire modelli previsionali di  rischio epidemiologico. In particolare potrebbero essere utilizzati: dati ambientali, ad esempio sulla qualità dell’aria o relativi alla morfologia cittadina; dati sulla densità abitativa e sulla distribuzione degli abitanti. Infine, un altro tipo di informazione (che avrebbe potuto aiutare molto in una fase iniziale dell’epidemia) poteva essere quella dei dati relativi agli spostamenti delle persone con i mezzi pubblici.

Veronica Franco