RIBELLIONI DA SERIAL – QUANDO LA RIVOLUZIONE HA LA VOCE DELLE SERIE TV

Che sia sociale, che sia politica, informatica o di fantasia, la rivoluzione è in atto: non c’è media, network o piattaforma in cui un sentimento di rivolta non sia centrale almeno una volta.

Lo dimostrano pienamente i prodotti dell’intrattenimento che da qualche tempo stanno popolando i nostri schermi, grandi e soprattutto piccoli, con trame che sì ritornano ma abbracciando momenti nuovi e fuori dall’immaginario che li precede. Penso a un cult editoriale e poi cinematografico come V per Vendetta, precursore di un trend inaugurato definitivamente da The Hunger Games, che si rivolge innovativamente ad una platea più giovane, prima di approdare a prodotti televisivi di media o altissima qualità come Mr. Robot e Il racconto dell’ancella, passando per la media serialità di Netflix in cui il concetto spazia tematicamente e stilisticamente tra proposte diverse e anche di diversa matrice geografica.
Ma, chiediamocelo, perché la ribellione si fa sempre più fitta nei nostri schermi?

Da un po’ di tempo la produzione di contenuti, soprattutto per quanto concerne la serialità, ha cambiato il focus alle proprie storie, le trame e anche le prassi narrative. Una prima scintilla di questo cambiamento è sicuramente una saturazione comunicativa che ha condotto all’implosione, metaforicamente rappresentata proprio da un impulso rivoluzionario che è spesso al centro di questi nuovi racconti; ma poi, di tutto ciò, si fa complice e timoniere quella possibilità strutturale odierna di dare voce a chiunque interagisca con lo schermo. Si instaura così un sistema sociale nuovo, in cui il prodotto audiovisivo diventa luogo di community capace di riflettere sentimenti diffusi.

Moti sovversivi di pensiero o di azione, dai risvolti positivi o dalle matrici pericolose, che sono sempre esistiti ritornano, quindi, e si dispiegano episodicamente dietro la guida di personaggi carismatici, anzi spigolosi, ma di fiction in grado di incanalare certi impulsi nelle righe prudenti della narrazione.

“Crawling in my skin, these wounds they will not heal, fear is how I fall, confusing what is real”, cantavano – dico con un nodo di infinita di tristezza – i Linkin Park qualche tempo fa. Una citazione che mi sale istintivamente alla mente e di cui voglio appropriarmi per qualche secondo, giusto il tempo di questa riflessione.

La rivoluzione scorre sotto la nostra pelle, le ferite insanabili si riaprono alla necessità di emergere e rompere i costrutti della realtà circostante, il bisogno di dire cose nuove o, piuttosto, di raccontare in modo nuovo cose da tempo costrette ma essenziali: è qui che arriva, per esempio, Sam Esmail con Mr. Robot, dissezionando la complessità psichica di Elliot (interpretato magnificamente da Rami Malek, ora Oscar per Bohemian Rhapsody) mano a mano che incrimina ed incrina il dualismo politico-economico di una società telematica che controlla tutti e distrugge ogni cosa. Mentre dall’altro lato, invece, si affaccia Il racconto dell’ancella che, muovendosi dal romanzo di Margaret Atwood, tesse le fila di una rivoluzione di genere in grado di far ripensare anche gli studi alla base della critica femminista sul cinema e la televisione. E a queste si aggiungono poi altri lavori meno risonanti tra il pubblico ma ampiamente sovversivi nelle tematiche, come Dear White People e la tedesca Noi siamo l’onda, quest’ultimo ispirato al romanzo di Todd Strasser L’Onda (e all’omonimo adattamento cinematografico del 2008) a sua volta basato sull’esperimento de “La Terza Onda” condotto dal professor Ron Jones nel 1967 in un liceo di Palo Alto: nella serie, un gruppo di adolescenti, stanco della supremazia dei ricchi sui più deboli, decide di attaccare il sistema con una serie di provocazioni più o meno radicali che, però, rischia di imboccare la strada sbagliata.

Sono prodotti come questi, per dargli un’immagine, che ispirano quelle manifestazioni reali in cui una maschera, un costume o anche un solo termine estratto dalla fiction vengono identificati come il pugno forte in grado di far leva sul parlare mediatico di certi topic sociali, come le proteste contro la legge sugli aborti negli USA in cui centinaia di donne hanno indossato mantelle rosse come le ancelle della serie, o la maschera di Guy Fawkes indossata da Hugo Weaving che ad oggi resta simbolo di rivoluzione e volto del gruppo Anonymous, ispirando – con altre fattezze – anche il volto della Fscociety di Mr. Robot e la maschera di Dalì utilizzata dai rapinatori de La casa di carta.

Sembra quindi che più i contenuti si avvicinino a noi, come nel caso delle serie tv, tanto più diventino stringenti certi sentimenti. Il medium, insomma, in particolare nella forma dei touchpoint digitali – basti pensare alla evidente predilezione di Netflix per questi prodotti -, si inserisce nella nostra vita e approfitta di questa posizione privilegiata per spronare qualcosa che sia molto più che pura immersione o semplice identificazione. Se le piattaforme di streaming entrano nel nostro quotidiano a piè pari, divengono allora il paradigma di una nuova “familiarità” che invita le audience non solo ad interagire con i prodotti ma, con un moto opposto, a ritrasportarli all’esterno, ingaggiandoli come scudi o armi da combattimento per portare avanti battaglie, abbattere stereotipi, persino rovesciare previsioni che rischierebbero di avverarsi in controtendenza al progresso. È questo, forse, lo scopo ultimo della rivoluzione seriale in atto: assorbirci nei suoi schermi per poi restituirci alla realtà con un’armatura più spessa per affrontarla. Forse serialità e storytelling sono il nostro settimo senso.

Simona Riccio