Confini, sicurezza, fake news, impegno nel cercare la verità: martedì 12 novembre, durante la lezione di Sociologia e antropologia dei media della professoressa Giaccardi, il giornalista dell’Avvenire Nello Scavo ha svolto un intervento sull’impatto del digitale sulla nostra capacità di attenzione e approfondimento dell’attualità, parlando, in particolare, delle situazioni legate all’immigrazione.
Dal 2018, per i suoi reportage sulla commistione tra le autorità italiane e i trafficanti libici di esseri umani, è sotto scorta.
La sua denuncia è forte: viviamo in un mondo fortemente polarizzato, in cui il linguaggio è avvelenato da superficialità e conduce a una situazione di anestesia sociale diffusa. Siamo, dunque, spinti a ridurre al minimo complessità e incertezza, selezionando informazioni rapide, efficaci e tranquillizzanti che sfociano spesso nella banalizzazione e nelle fake news. Questo tipo di comunicazione, questo nostro modo di essere, quello che siamo diventati, è quindi la strada per il successo di chi ama gli slogan, la semplificazione e la tranquillità.
Il problema dei nostri giorni, evidenziato dagli strumenti digitali, è proprio quello di non saper entrare nel merito di questioni che meriterebbero approfondimento e ricerche trasversali.
A questa criticità si unisce l’incapacità di mettere in connessione i fatti tra loro, saper svolgere un’analisi e riscontrare un senso, saper dare significato alle notizie che ci circondano.
In questo panorama, il ruolo del giornalista è aiutare i comuni cittadini a raggiungere la verità che non appartiene a nessuno e deve essere ricercata. Queste figure professionali si avvalgono della collaborazione delle persone per svolgere il loro lavoro al meglio, tentando di ricostruire storie e fatti nella maniera più neutrale possibile e agganciandosi alle segnalazioni di chi può inconsapevolmente trasformarsi in un’importante fonte.
Basti pensare che grazie alle foto di un cittadino, Nello Scavo ha ottenuto lo scoop della presenza del trafficante di esseri umani Abd al-Rahman al-Milad all’incontro di Mineo, in Sicilia, nel 2017 con le autorità italiane.
Avere ospite in università una persona così rilevante nel panorama del giornalismo italiano è stato coinvolgente e mi ha fatto riflettere sulle capacità di impegno dei singoli.
Siamo abituati a crogiolarci nella comodità, a sapere di essere dalla parte del mondo in cui possiamo avere il privilegio di indignarci superficialmente per quello che accade dall’altra parte, senza avere coscienza del fatto che ci riguarda direttamente. È una dimensione estremizzata, dove i ragazzi siriani cristiani nel loro viaggio di speranza hanno paura di varcare il confine con l’Ungheria perché spaventati dalla discriminazione e dal nazionalismo, dove nei campi di lavoro in Libia le famiglie nascono e muoiono e i bambini non hanno più un papà e una mamma o sono frutto di violenza.
Tutto si banalizza, anche i drammi, tutto è appiattito: abbiamo voglia di impegnarci per il nostro benessere, per mantenere il nostro spazio vitale intatto e comodamente perfetto per noi, ma non per restituire qualcosa al mondo oltre a un semplice ‘mi piace’ di solidarietà alla causa del traffico di esseri umani, per esempio.
Nello Scavo parla concitato, senza tralasciare dettagli impressionanti, perché anche dopo anni nel mestiere rimane sempre pietrificato davanti alla mancanza di umanità nelle situazioni che indaga.
Lascia solo un ultimo spiraglio, un monito, una speranza finale, quando descrive il misterioso “Schindler” della Libia che restituisce la libertà ai ragazzini venduti come schiavi, pagando loro il viaggio della speranza in Europa per permettere loro di sognare un futuro.
Concludendo l’intervento, il giornalista ha commentato “Se questa non è una storia che merita di essere raccontata, io smetto di fare il giornalista.”
Giulia Lo Surdo