Non molto tempo fa vi avevo parlato della magia di Cannes, dei sacrifici e dei problemi logistici, delle difficoltà affrontate per avere accesso a uno dei festival cinematografici più importanti ed esclusivi al mondo.
Però nonostante entrambi siano nati (uno a inizio maggio e l’atro a inizio a settembre) con lo scopo di anticipare e allungare la stagione balneare in due delle località di mare più ricercate in assoluto, provare a raccontare il festival in Costa Azzurra è cosa ben diversa rispetto a un resoconto sulla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, giunta quest’anno alla sua 76esima edizione.
I due eventi e gli ambienti che li ospitano hanno molto in comune, specie se li si mette a confronto con altre realtà festivaliere altrettanto note come Berlino e Locarno. Entrambi sono miraggio e ambìto obbiettivo delle produzioni filmiche più rilevanti a livello internazionale, naturale bacino che accoglie ciò che di più atteso sfocerà nelle sale, in termini di qualità visiva e di pubblica fama; entrambi si fanno punto di ritrovo delle celebrities più desiderate e paparazzate, raduno delle personalità creative più interessanti dell’industria. Condividono quell’atmosfera vacanziera e frivola, effervescente ed emozionante, la brezza marina, un turismo vestito di pizzi, lino, righe, paglia, fiori e corda, sui toni del bianco, del blu e del nude; si litigano il fermento culturale innescato e il glamour. E se forse la location provenzale vince su quella veneta in termini di “profumo di élite” respirabile nell’aria del festival, sicuramente l’ex Repubblica Marinara spodesta la nemica francese sul campo del potere culturale, in quanto dotata dei due eventi artistici gemelli (la Mostra del Cinema e La Biennale d’Arte e di Architettura) più influenti.
Dopo un Cannes diviso tra l’invidiatissimo pop hollywoodiano di “Once upon a time in Hollywood”, gli autoriali “Matthias & Maxime” di Dolan, “Dolor y Gloria” di Almodóvar, “Il Traditore” di Bellocchio, il disturbante “Nina Wu” e il fallimentare “Once in Trubchevsk”, Venezia 2019 apre le porte dichiarandosi apertamente famosa, tra il Brad Pitt di “Ad Astra”, “The New Pope” di Sorrentino con la schiera di vip da Jude Law a Malkovich, l’imprenditrice digitale con “Chiara Ferragni: Unposted”, il Marinelli di “Martin Eden” e via dicendo.
Inutile descrivere l’emozione provata nel vedere il red carpet di una sempre meravigliosa Meryl Streep, interprete del nuovo film di Soderbergh “The Laundromat” e, il giorno dopo, assistere in Sala Grande alla consegna — da parte di Luca Guadagnino — del Leone alla Carriera a Julie Andrews, segue proiezione dell’intramontabile musical “Victor Victoria”.
Se il rigore e il senso di responsabilità, uniti alla consapevolezza della fortuna di prendere parte ad un simile evento, mi vorrebbero spettatrice di 5 o 6 film al giorno (ore di sonno per notte tre, considerando le feste fino alle 4 del mattino e l’inizio delle proiezioni alle 8:30), fallisco miseramente nel mio intento, ma godo invece della possibilità di camminare (a qualche centimetro da terra) in un ambiente tanto fertile e stimolante, con tanto di incontri non solo vip, ma proficui lavorativamente.
Trascorrere una giornata al Lido, respirandone l’aria e sorseggiando spritz, chiacchierando per ore di quello che si è riusciti a vedere, può essere talvolta ancor più utile e interessante per chi, come molti di noi, si accinge a inserirsi o quantomeno sta tentando di fare capolino nell’industria cinematografica.
La fortuna mi ha assistita, perlomeno, permettendomi di assistere alle proiezioni sì di pochi film, ma rispetto ai quali non posso che esprimermi positivamente. Tre quelli che mi hanno colpita maggiormente:
“Ema” del cileno Pablo Larráin, un film estremamente moderno, che non solo gode di un sotto-testo e di un messaggio decisamente potenti e all’avanguardia, ma che sbalordisce nell’utilizzo di immagini, luci, suoni e movimenti (corporei, più che di macchina) estremi, ammalianti, quasi sperimentali e con un’attenzione estetica assoluta, combinato però alla scelta di un epilogo sorprendentemente ironico e pungente, inatteso, non aperto ma anzi comicamente educativo, una sorta di bacchettata sulle mani a uno spettatore ormai assuefatto al surreale e alla stranezza di ciò che ha visto fino a quel momento;
“Joker” di Todd Phillips, un gioiellino di versatilità (il suo autore), che passa da “Una notte da leoni” a un’opera disturbante, che — come qualcuno ha detto a proiezione conclusa — “fa venire voglia di dare fuoco a tutto”, forse dottrinale, forse prevedibile nell’argomentare e giustificare il cursus (dis)honorum che porta il protagonista a diventare Joker, forse leggermente bigotta nella morale lanciata in conclusione, ma sicuramente unica nell’interpretazione e nella mostrazione di una storia nota e abusata, già arrivata ai picchi di successo della sua rappresentabilità e, nonostante ciò, riuscita nell’intento di raccontare l’introspezione di un uomo, la climax di una follia, tra la classicità del viaggio dell’eroe e la schizofrenia postmoderna che inganna lo spettatore a più riprese — il tutto allontanandosi in maniera dichiarata ma anche sottile e raffinata dall’universo DC Comics;
il polemico e commovente “American Skin” di Nate Parker, presentato e prodotto da Spike Lee (essere a un metro da lui… non ne parliamo), che ha scosso le membra di una sala intera e ha dato una schicchera (si spera) alle coscienze di un Paese, gli Stati Uniti, ma anche a quelle del mondo, ricordandoci violentemente con un film dentro ad un film dello stato di soggezione e di controllo a cui siamo perennemente sottoposti e della difficoltà nel tracciare una linea tra giusto e sbagliato, tra dovere e abuso di potere, tra sicurezza e razzismo, spogliandosi di quella pelle americana che viene così mostrata a tutti noi come una responsabilità, come un peso, come un sacrificio.