“Free from the fear… to be creative!” Citazione e sunto della mattinata del 7 Ottobre, che ha visto gli studenti CIMO assistere a un incontro promosso dall’Università Cattolica in collaborazione con ALMED e Wemake: (Re)Making Humanites.
Modera la conferenza, rigorosamente in inglese, Matteo Tarantino, professore e ricercatore presso l’Università di Ginevra. Due, tra gli ospiti, vengono da vicino, in quarantacinque minuti di metro si può raggiungere la loro sede in zona Gorla: Il WEMAKE-makerspace fablab. A presentare questo innovativo spazio e progetto sono i fondatori Zoe Romano e Costantino Bongiorno.
Ha invece preso un volo da Parigi James Carlson, fondatore di School Factory e Cofondatore di Bucketworks (entrambe realtà statunitensi), il quale al momento lavora nella capitale francese presso il Center for Research and Interdisciplinarity.
Sarà quest’ultimo a prendere la parola per primo e grazie alle sue spiccate doti di public speaking, a far passare un’abbondante ora di presentazione in un secondo. Ci catapulta in Wisconsin, precisamente a Milwaukee, luogo in cui sorge la School Factory, un’organizzazione no-profit. Essa si identifica come un nuovo tipo di scuola, dove l’accesso è garantito a chiunque, dove sono di casa la creatività, il self management e soprattutto un impegno sociale legato alle tematiche di integrazione e comunità.
La città, sottolinea Carlson, è un contesto complesso da vivere, un razzismo fortemente penetrante porta le case di una medesima strada a mostrare, tra i due versanti, un’assurda disparità di prezzo, poiché abitate da etnie differenti e conflittuali. Si chiedono dunque: «How could we change the city to make an healthier environment? »
Un safeplace, un locus amoenus dove sporcarsi le mani e dove fare, nel vero senso del termine, era necessario. Esplorando questa realtà ci imbattiamo nel progetto interno Bucketworks: si immagini un secchio e lo si riempia con: arte, tecnologia, teatro, qualche avvocato, dei computer in un laboratorio, workshop creativi, eventi di svariato tipo (tra cui matrimoni) ed ecco che comincia a delinearsi questo universo open-space di possibilità, e non dimentichiamoci un coffee shop.
Sono un centinaio, tra membri e partner, coloro che si muovono all’interno della struttura, la quale si finanzia innanzitutto mantenendo uno stile di vita ecosostenibile, molti degli artefatti da loro realizzati provengono da materiali di scarto o rifiuti. Organizzano inoltre svariati eventi di autofinanziamento e infine propongono un abbonamento conveniente ed economico a giovani e squattrinati studenti (quaranta dollari l’anno) e proporzionalmente più dispendioso per le grandi aziende che si rivolgono a loro nell’affannosa ricerca di ispirazione: «they come to play», per giocare.
Il fulcro è l’equilibrio tra mente e corpo: «se aiuti un tuo amico a traslocare -racconta Carlson- nella stessa giornata devi prendere un pennello e dipingere». In questo surreale paese dei balocchi lavori duro, poi, a fine giornata, incontri i tuoi vicini di casa e crei con loro regali di Natale, evitando calca e stress e semplicemente facendo fruttare la tua inventiva.
«So many divergent prospectives, in the same place, can make really great ideas».
Torniamo in Italia con la testimonianza di Romano e Bongiorno, i quali raccontano del Fablab, ideologicamente connesso alla School Factory, in particolare riguardo al making e alla relazione col territorio. Nei duecentocinquanta metri quadri della loro sede si propongono di portare la tecnologia digitale alla gente, di coinvolgere le persone avvicinandole a un’idea di innovazione più autentica. Operano su tre versanti: textile, electronic e fabrication; nel loro spazio hai concrete possibilità di vedere il tuo progetto mentale mutare in un prodotto finito. Anche in questo caso troviamo applicazioni nel sociale, come la collaborazione con un’ ONG in Burkina Faso o l’utilizzo di stampanti 3D per realizzare protesi nettamente più convenienti rispetto a quelle in titanio.
I quattro ospiti insistono sul senso di community, sul guardarsi intorno, sperimentare, creare costantemente. E per un audience di studenti che troppo spesso si sono scontrati col fantasma dell’errore e dello sbaglio, è rincuorante sentirsi dire che esistono questo tipo di posti nel mondo, anche se ancora troppo pochi, dove: «…it’s ok to mess up and make mistakes! ».
CIMOreporter – Martina Ibba