Al giorno d’oggi si parla spesso di social responsibility e delle posizioni che i marchi sono chiamati a prendere nella società: i consumatori infatti sono più inclini a comprare prodotti e servizi di aziende con cui condividono dei valori. Ciò, tuttavia, ha portato in alcuni casi ad uno snaturamento di quello che la social responsibility dovrebbe rappresentare: allineare l’immagine e i valori del brand con una specifica target audience può essere una maniera semplice per attirare consumatori, ma non tutti i brand che all’apparenza si fanno promotori di alcune cause le sposano concretamente.
Questa pratica portata avanti da alcune corporations, che prende il nome generico di color washing, consiste proprio nella comunicazione ingannevole del proprio sostegno nei confronti di temi di attualità rilevanti a livello sociale e ambientale con solo scopo di lucro.
Green washing, pink washing, rainbow washing, l’elenco è lungo.
Questi nomi derivano dal fatto che certi brand fanno utilizzo di colori simbolici per millantare la loro vicinanza ad una causa; nel caso del green washing, il colore verde diventa simbolo di quella che dovrebbe essere attenzione verso l’impatto ambientale e la sostenibilità. Stesso discorso vale per il pink washing, con il colore rosa utilizzato inizialmente per rappresentare la vicinanza delle aziende a chi lotta contro il cancro al seno, poi in senso più ampio per sostenere l’emancipazione femminile.
Il rainbow washing è più recente: per rainbow washing si intende una pratica legata temporalmente al mese di giugno, che vede alcune marche sfruttare i colori dell’arcobaleno nel branding, per il merchandising e sui social media, apparentemente a sostegno dei diritti della comunità LGBTQ+ ma senza fare nulla a livello pratico.
Giugno è diventato da decenni il mese del pride: in ricordo delle rivolte avvenute a New York City nel giugno del 1969 in seguito alle retate della polizia in un famoso gay bar della città, passate alla storia come i “moti di Stonewall”, durante il mese di giugno in molti paesi la comunità LGBTQ+ e i suoi allies colgono l’occasione non solo per celebrare la comunità, ma per chiedere uguali diritti e opportunità per tutti i suoi componenti. Nel corso degli anni, l’attenzione intorno all’argomento è cresciuta sempre di più e, di conseguenza, ha acquistato importanza anche presso i brand più famosi.
Ormai a giugno quasi tutti i brand si tingono dei colori dell’arcobaleno, partendo dal cambiamento momentaneo del colore dei loghi – cambiamento che ha giusto la durata del mese, dal primo luglio tutto torna alla normalità. E poco importa se poi, in realtà, il brand sostenga o meno i diritti LGBTQ+. Proprio alcuni tra i brand più conosciuti a livello mondiale sono colpevoli di aver “indossato” i colori del pride, finanziando nel frattempo politici e organizzazioni discriminanti nei confronti della comunità.
Queste pratiche indeboliscono soltanto il significato che il pride e la rainbow flag rappresentano per una comunità intera. Se da un lato il sostegno dei brand è importante, in quanto porta visibilità e può contribuire a creare un cambiamento in positivo, questo sostegno per essere credibile deve essere accompagnato da iniziative concrete: non può limitarsi a essere una trovata di marketing per guadagnare un profitto sulla pelle di una minoranza.
Chiara Mascitti