Non è solo un gioco: sport e self branding

More then a Game ha più di qualche anno alle spalle e, oltre ad essersi aggiudicato il titolo di primo documentario realizzato sulle imprese di vita e di sport di LeBron Raymone James Sr., invecchiando si è trasformato in un uso figurato che si può applicare ad un ventaglio piuttosto ampio di situazioni.

Quanto concerne a noi, in questo caso particolare, è una riflessione generale su come lo sport spesso non sia né autosufficiente né sufficiente a colui che lo pratica, pur magari essendo un talento, per ottenere un vero successo. Il sistema sportivo statunitense è imperniato sul sistema collegiale, in una relazione ellittica che orbita sostanzialmente attorno ad un aspetto onnipresente del mondo capitalistico americano: il business.

Quando LeBron James aveva 16 anni nel suo secondo anno al liceo di St. Vincent andavano in media 16.000 persone a guardarlo giocare; ESPN trasmise in diretta nazionale una sua partita prima ancora ch’egli approdasse nel basket professionistico; Time Warner Cable offrì alla sua scuola superiore un accordo per trasmettere le partite a pagamento. Tuttavia, per legge, James non poteva guadagnare soldi né poteva accettare alcun tipo di regalo dal valore di 100 o più dollari, ma non è sbagliato affermare che, in qualche modo, fosse già ricco. La copertura mediatica, per quanto assillante e a tratti insostenibile, ne aveva già fatto una superstar.

Oggigiorno, i ragazzi del college possono farcela da soli, se abbastanza talentuosi, con uno smartphone ed una connessione internet. Non si capisce, allora, perché in Italia gli sportivi che creano il proprio successo secondo le dinamiche del self-branding debbano essere attaccati a più riprese e tacciati d’ogni intemperanza morale: se l’atletica leggera professionale a livello nazionale produce meno ascolti e totalizza meno visualizzazioni del calcio di categoria provinciale si può tranquillamente biasimare il sistema giornalistico sportivo che neppure tenta di puntare i riflettori su una disciplina storica che meriterebbe più rispetto e considerazione. Ma se Gianmarco Tamberi o Marcell Jacobs su Instagram annoverano rispettivamente 570mila e 800mila follower e l’account ufficiale FIDAL solo 103mila, sicuramente la loro non è una colpa, ma un merito.

Il primo in particolare rappresenta un caso esemplare – forse veramente l’unico – di self branding all’interno dell’orizzonte sportivo italiano: il look half-shave è terribilmente anti-estetico; di fatto, però, costruisce un’immagine atipica, fa parlare, fa interazioni, avrebbe addirittura potuto, malauguratamente, settare un trend; in ogni caso fa da cassa di risonanza agli straordinari risultati della carriera del saltatore, si presta al mondo dei media e dell’entertainment, completa l’idea di una personalità che ha molto più da offrire al mondo del business che non il solo talento sportivo.

Giulio Montagner