Il 24 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti ha abolito la sentenza che garantiva il diritto all’aborto negli USA. La reazione dei cittadini è stata immediata ma non solo, anche le aziende si sono schierate: questo è l’ultimo iconico caso di Brand Activism.
Il Brand Activism è un fenomeno che sta esplodendo negli ultimi anni, soprattutto dopo il grande impatto a livello reputazionale che ha avuto la campagna Dream Crazy con Colin Kaepernick del 2018 su Nike. L’attivismo di marca viene definito dal padre del marketing moderno Philip Kotler, e da Christian Sarkar, autore ed attivista, come l’insieme degli sforzi dell’impresa per promuovere, impedire o influenzare riforme o stati di inerzia sociali, politici, economici, ambientali con il fine di promuovere, o impedire miglioramenti della società. Molto più semplicemente, è possibile definire questa tendenza come una presa di posizione da parte dei brand. I temi su cui i brand prendono posizione sono svariati ma spesso questi riguardano i diritti per cui ad oggi ancora bisogna lottare.
Nel caso oggetto d’analisi, l’indignazione che ha travolto l’opinione pubblica sulla repressione di un diritto ormai solido in USA da quasi 50 anni, ha investito anche numerose aziende: infatti, questa abrogazione permette agli stati membri di vietare l’aborto, conseguendo rischi per la sicurezza e la salute delle donne e rendendo l’operazione più costosa (dovendo affrontare viaggi per raggiungere stati in cui questo diritto viene ancora garantito).
Dunque, aziende come Disney, Netflix, Warner Bros. e Discovery hanno deciso di esprimere il proprio dissenso garantendo per le dipendenti l’accesso ad un diritto che ha lo scopo di tutelare la proprietà del proprio corpo. Nel concreto queste aziende hanno dichiarato che pagheranno le spese di viaggio e di alloggio in quegli stati che riconoscono ancora il diritto all’aborto.
Google ha fatto un’ulteriore promessa: permetterà alle proprie dipendenti di chiedere il trasferimento in un altro stato senza che venga spiegato il motivo, in modo tale che esse possano accedere al diritto all’interruzione di gravidanza.
Un altro caso è quello di Meta, che si è allineata all’operato delle altre aziende. Ha però fatto molto discutere per aver comunicato ai propri dipendenti di non prendere posizione sui social riguardo alla questione per evitare problemi al lavoro.
Tante altre sono le aziende che si sono attivate sul caso, tra cui Condé Nast (casa editrice di Vogue e Vanity Fair), Levi’s, Uber e Lyft.
Il Brand Activism è dunque un fenomeno interessante che è direttamente proporzionale al crescente potere che stanno assumendo le imprese e al loro impatto sempre più consistente. Lo schierarsi dei brand dalla parte della società ha effetti positivi in termini di awareness, di reputation, ma internamente è anche capace di sviluppare un maggior senso di appartenenza, di orgoglio, e quindi di organizational well-being. L’auspicio, e la massima espressione del Brand Activism, è che le marche riescano a determinare dei reali cambiamenti politici a sostegno dei diritti umani.