Un secolo fa uno dei più fini pensatori che il mondo abbia conosciuto scrisse con giustificata sicumera che «solo le persone superficiali non danno credito alle apparenze». A distanza di un secolo abbondante quest’affermazione appare quanto mai profetica nella misura in cui descrive pienamente una porzione del nostro modo di vivere e del mondo che ci circonda.
In nome di questo principio si sta tenendo un’ulteriore disputa, già ribattezzata dall’improvvisa fantasia di alcuni redattori sportivi «la bagarre dei gioielli»; ci si riferisce con ciò al contenzioso che mette uno di fronte all’altro il 7 volte campione del mondo Lewis Hamilton ed il nuovo patron del circus, Mohammed Ben Sulayem.
Casus belli della faida interna più chiacchierata dell’ultimo periodo, una specifica norma del regolamento che è stata con forza sottolineata dall’interpretazione del neoeletto direttore di gara Niels Wittich tramite un promemoria. Qualunque altro pilota non potrebbe permettersi di protrarre una querelle che al momento – si ventila – rischia di condurre addirittura alla sospensione, al ban, all’esclusione dalle corse: ma nessun altro pilota è Sir, nessun altro pilota è nero, nessun altro pilota ha l’influenza di Hamilton sulle masse. Inoltre, nessun altro pilota ha fatto di sé stesso un brand come Lewis: grande appassionato di moda, fresco di presenza all’ultimo Met Gala dove ha sfoggiato un’outfit decisamente avanguardistico e ogni weekend in pista è anche una sfilata su una passerella d’asfalto. Né più né meno di tanti altri colleghi sportivi si può controbattere, pensando ad esempio a star NBA come Russell Westbrook o colleghi decisamente meno noti per le loro performance sul parquet ma ampiamente discussi per i loro eccentrici capi d’abbigliamento.
Nel nostro caso tuttavia la battaglia per la libertà di vestire riguarda principalmente gli accessori che il nativo di Stevenage porta in pista: orecchini, piercing, anelli e via discorrendo; naturalmente, tutti diamantati e tutti di valore indiscutibile. La strategia discorsiva delle parti in causa ruota attorno a due poli ideologici: da un lato la rivendicazione alla libertà della disposizione del proprio corpo, dall’altro la sicurezza dei piloti, nel cui nome è stata rilanciata questa norma del 2005 e che rischia in realtà di apparire un po’ come una copertura. Questa rigidità nei confronti degli accessori potrebbe infatti vagamente rammentare infelici disposizioni suntuarie, quasi ottemperasse a diktat extra sportivi pro bono mores più che in linea con il teocratico regime di cui il sultano è rappresentante ai massimi livelli; non sia mai che i telespettatori di certe aree del mondo scoprano i difetti dell’opulenza o dell’ostentazione del lusso, a dir si voglia: potrebbero poi inconsciamente rinvenire i segni del potere negli uomini che li controllano.
In ultima istanza, si tratta di business as usual: vestirsi è uno dei passaggi fondamentali della brand culture che informa i nostri giorni, ancor di più lo è per il pilota più fashion della storia dell’automobilismo (si pensi alle collab con Tommy Hilfigher o per Police); un passo indietro nei confronti dei propri gioielli sarebbe un passo indietro su tutta la linea, minacciando l’immagine che Sir Lewis ha faticosamente fabbricato di sé stesso.
Giulio Montagner