Grand Army è il nuovo teen drama targato Netflix che dallo scorso 16 ottobre promette imparzialità di narrazione tentando di raccontare il cosmo adolescenziale nella sua rigorosa crudezza. Ma quanta aderenza al reale c’è in questo pastiche di tematiche?
La serie si sviluppa come costola dello spettacolo teatrale SLUT: The Play datato 2013, ideato dalla penna creativa di Katie Cappiello, omonima autrice della suddetta serie. Il titolo, indubbio riferimento allo slut-shaming – lemma femminista che stigmatizza atteggiamenti tipici di una società misogina –, palesa da subito la voluta volontà di denuncia sociale. A differenza dello spettacolo teatrale che porta in scena la rappresentazione tragica dell’adolescenza di Joey Del Marco, unica protagonista, marchiata da una violenza sessuale, nella serie si costruiscono i profili di cinque personaggi principali, ognuno dei quali impegnato in una lotta personale contro sé stesso e contro una società che sembra sopprimerlo. Sono: Joey Del Marco, la cui storyline non sembra, purtroppo, divergere da quella della sceneggiatura teatrale; Dominique Pierre, costantemente in bilico tra le sue ambizioni e la famiglia; Siddhartha Pakam sogna Harvard, l’unico ostacolo per raggiungerlo sembra essere l’accettazione di sé; Jayson Jackson, promettente sassofonista vittima, insieme al suo migliore amico, di atti di intolleranza razziale; e Leila Kwan Zimmer, che combatte contro una crisi d’identità che sembra portarla a perdersi ancora di più.
Anche in questa serie, come altre di questo stampo, il leitmotiv sembra essere il riflesso di una generazione satura di ingiustizie sociali, di disparità di genere, condizionata da becera omofobia, da violenze psicologiche e sessuali, ma soprattutto sopraffatta dall’ansia di crescere, e dominata da un vigoroso senso del dovere che non dovrebbe appartenere alla leggerezza adolescenziale, o almeno, non con preminenza. In Grand Army, vi è un vero e proprio pastiche di questioni che sembrano non essere argomentate fino in fondo, dando sì al fruitore diversi spunti di lettura e di interpretazione delle vicende, ma che poi non vengono trattate nella loro completezza, e il cui esito sembra essere una visione disorganica di quelle che sono le problematiche adolescenziali. L’unica vicenda che sembra essere affrontata nella sua integrità (quantomeno più delle altre) e con magistrale serietà, è quella di Joey Del Marco. L’episodio della violenza si immerge perfettamente nella cosiddetta cultura dello stupro (rape culture), in cui viene quasi “normalizzata” la violenza quando consumato in un ambiente familiare alla vittima – in questo caso specifico da quelli che considera, o meglio, considerava i suoi migliori amici –, o addirittura colpevolizzata per gli atti subiti. L’aderenza sociale c’è, è palese. È una conformità che verte però solo sugli aspetti negativi di questa generazione, rappresentandoli in un realismo esasperato e disilluso.
Il cliffhanger fa intuire un possibile prosieguo degli eventi. Ad oggi, però, nulla è confermato. Nella speranza che le vicende sospese in questa prima stagione trovino un punto in una stagione successiva e che le domande suscitate non trovino risposta solo nell’immaginazione, non resta che fare tesoro delle questioni sollevate e riflettere su quanto visto.
Carolina Pugliese