«Nell’era digitale anche la perdita è andata perduta».
“Hai un nuovo ricordo”. Così esordisce la notifica di Facebook ogni giorno sul profilo personale di ogni utente, riportando “a galla” gli avvenimenti, i post e le foto che quell’utente ha pubblicato e condiviso “nell’oggi” di uno, due o dieci anni fa.
Ogni giorno, infatti, Facebook ci propone le sue funzioni “Hai un nuovo ricordo”, “Accade oggi”, fino ad arrivare al mese di dicembre con “Il tuo anno in breve”, un video auto-generato dalla piattaforma che ti chiama per nome e recita: “Abbiamo creato un video per consentirti di rivivere alcuni ricordi del xxxx. Tutti noi di Facebook speriamo che ti piaccia”. Il video, della durata di un minuto, mostra le amicizie strette, i nostri post di maggiore successo e quelli più commentati nei dodici mesi appena trascorsi. Alla fine del video leggiamo: “A volte, uno sguardo al passato ci aiuta a ricordare quali sono le cose più importanti. Grazie di esserci!”.
Ed è così che, attraverso la piattaforma social, riportiamo in superficie il passato (involontariamente, senza che nessuno l’abbia chiesto… e forse neanche desiderato) e lo intrecciamo con il presente. Facebook è la grande memoria che mantiene in vita i nostri ricordi (e, non dimentichiamolo, tutti i nostri dati!) e il nostro passato salvando tutto dall’oblio. È un enorme museo virtuale nel quale sedimentiamo tracce, è il cassetto dei ricordi 2.0, è la cassaforte (la cui chiave, però, non è in nostro possesso) dei nostri dati personali. Come scrive Davide Sisto, filosofo contemporaneo, deleghiamo a strumenti artificiali la nostra claudicante memoria.
La società 2.0 è la società ossessionata dal ricordo, dalla memoria, dallo “sguardo al passato” che perpetuamente ridiventa presente. Ed è proprio la più moderna delle piattaforme, quella più “qui e ora”, che in modo paradossale ci lega stretti al passato facendolo riemergere attraverso, tra l’altro, i meccanismi delle challenge #10yearschallenge o la #throwbackthursday.
Ma siamo davvero tutti felici di questo perverso meccanismo che ci immerge in un eterno presente? È davvero difficile dimenticare nell’era digitale? Come si possono cancellare i ricordi se questi vengono costantemente dissotterrati e riesumati da un social che ci obbliga a vedere il nostro presente attraverso il binocolo di un passato recente o lontano? Ben si capisce allora il filosofo Mark Fisher quando scrive che “nell’era digitale anche la perdita è andata perduta”. Se l’atavica paura dell’uomo è quella della morte, dell’assenza, della perdita eterna, l’essere umano-tecnologico colma quest’assenza con la persistente presenza. E lo fa, in modo eclatante, postando “le reliquie secolarizzate”, quelle fotografie di cui non si aveva più memoria, o che si volevano proprio dimenticare.
Siamo dunque diventando dei novelli Gilgamesh alla ricerca dell’immortalità? Stiamo forse diventando il database di noi stessi? Stiamo forse cercando di innalzare quello che il poeta Orazio chiamava monumentum aere perennius? Ma, mentre un tempo era la gloria, la virtù, il coraggio, la meraviglia delle opere e la grandezza delle azioni a consegnare alla memoria eterna gli eroi e i poeti, oggi il tutto si riduce a un click che rende banalmente “eterno” un selfie, una smorfia, un sorriso stereotipato.
Patrizia Celot