SUCCESSION – L’IRRESISTEBILE PRESTIGE DRAMA SU MEDIA E MILIARDARI

Quando si sente parlare di eredità, famiglie miliardarie e lotte di potere è più che lecito storcere il naso. Da Dallas in poi, queste storie sono diventate archetipiche della televisione soap. Ma da ben due anni esiste una serie che racconta tutto questo in maniera talmente geniale e innovativa da aver fatto gridare al capolavoro. Sto parlando di Succession, il gioiellino HBO da poco vincitore di ben due Golden Globe (miglior serie drammatica e miglior attore), ideato da Jesse Armstrong. 

Tragica e shakespeariana, ma anche cinica e ironica; comica e drammatica; caricaturale, ma al contempo verosimile, Succession, a discapito di una trama ingannevole, è una delle cose più thrilling accaduta in tv negli ultimi tempi. E sicuramente è pronta a scrivere un nuovo capitolo della storia del piccolo schermo

Se poi siete dei #CIMERS – più o meno amanti dei racconti episodici – a maggior ragione non potete perdervi l’avvincente parabola di un impero mediale in crisi. Nonostante l’informazione (manipolata) e l’intrattenimento televisivo, i parchi a tema e le crociere, la Waystar Royco è sommersa di debiti e il malore dell’autoritario e cocciuto patriarca Logan Roy (una sorta di Rupert Murdoch interpretato da Brian Cox, premiato ai Globe) getta gli azionisti nel panico, aprendo la possibilità della successione al potere. A concorrere da tempo per la posizione di CEO della mega-corporation è il secondogenito Kendall (Jeremy Strong), esperto nella gestione aziendale ma debole psicologicamente e con un passato di droga. Kendall si dovrà confrontare con Roman (Kieran Culkin), il figliol prodigo depravato dal carisma tagliente. 

Nella prole rientrano anche Siobhan (Sarah Snook), l’intelligente figlia femmina che sembra sfogare l’odio irrisolto verso il padre lavorando come spin doctor per politici di sinistra, e Connor (Alan Ruck), il più vecchio di tutti, adagiato nel lusso e “fuori dal mondo” sia fisicamente (vive in una villa nel deserto) sia mentalmente (a un certo punto vorrebbe diventare Presidente degli Stati Uniti per abolire il sistema tributario). Poi, come Peggy Olson in Mad Men, c’è il goffo Greg (Nicholas Braun) – un giovane nipote di Logan appena assunto come colletto bianco – ad accompagnare lo spettatore dentro quel micro-universo distorto dei miliardari, fatto di persone viziate a arriviste, in grado di influenzare quella stessa realtà che snobbano e da cui rifuggono. Ma, come in ogni grande sceneggiatura della prestige tv di HBO, sarà con questi discutibili individui che saremo chiamati a empatizzare, tifare e vivere intimi momenti di suspense. Perché quando si tratta di anti-eroi e nemici, dato anche l’alto numero di comprimari di livello, Succession non è seconda a nessuno.  

Altro elemento che rende la serie quasi unica è la complessità dei livelli di lettura. Un qualcosa a cui forse, come spettatori distratti dell’ultima miniserie Netflix, non eravamo più abituati. Se in superficie riconosciamo il solito soggetto soap con ricchi personaggi patinati, un po’ più a fondo scoviamo la narrazione di un’impresa mediale tradizionale che deve competere con un mercato sempre più dominato dall’over the top e da colossi come Google e Facebook. Si affronta poi, sotto forma di satira, il tema della disuguaglianza sociale (scottante nel dibattito politico degli States), del divario di ricchezza – e di stile di vita – tra il one percent of population e il ninety-nine, come li definisce Bernie Sanders (che ha una specie di alter ego nel personaggio di Gil Eavis). Al centro di tutto, però, ci sono la famiglia e la sua disfunzionalità, affrontate in modo davvero sottile e realistico, senza lasciare mai spazio al patetico o al banale. I rapporti conflittuali – tendenti al fratricidio e al parricidio – riescono a essere più entusiasmanti e perversi di quelli dei Lannister, pur senza (o quasi) bagni di sangue al seguito.

Infine, l’eterno tema dell’incomunicabilità umana, dell’incapacità di connettersi profondamente con gli altri (per timore reverenziale o odio recondito), nemmeno con chi dovrebbe essere sempre al proprio fianco, come parenti o amanti. Non è un caso che Succession sia stata paragonata ad alcuni nomi dell’Olimpo della serie tv, come I Soprano, che negli anni Duemila avevano costruito proprio sulla famiglia e i rapporti interpersonali una delle più belle metafore della vita americana. 

L’ultimo grande merito, oltre che alle performance recitative, va ad Armstrong e ai suoi collaboratori (registi e produttori tutti più o meno provenienti dal genere comedy), come hanno ribadito – intervistati sul red carpet – Sarah Snook e Kieran Culkin (il cui fratello, Macaulay, era il bimbo di Mamma, ho perso l’aereo). Infatti, lo sceneggiatore, per rendere tutto più spontaneo, avrebbe lasciato degli spazi vuoti all’interno dei dialoghi dei personaggi, per permettere al cast di improvvisare il più possibile. Una ricetta che, se a volte sfocia in qualche monologo virtuosistico, rende Succession una delle serie più efficaci e distintive della fine degli anni Dieci.

Nicola Crippa