Se dovessi consigliarvi oggi una pellicola in sala, sarebbe un film timido ma spietato, a tratti edonistico, sicuramente conturbante. Sarebbe Burning – L’amore brucia, alla cui visione non si può restare indifferenti.
Il regista e politico coreano Lee Chang-do elabora il suo nuovo lavoro a partire dal racconto breve del giapponese Haruki Murakami intitolato “Granai bruciati” (che nel film diventano serre) e incluso nella raccolta L’elefante scomparso e altri racconti pubblicata per la prima volta nel 1993.
Presentato al Festival di Cannes 2018 e in competizione alla 91ª Edizione degli Oscar come Miglior film straniero, il film è nelle sale italiane dal 19 settembre.
Jong-su (Yoo Ah-in) è un aspirante scrittore senza un lavoro fisso che in una giornata qualunque ritrova Hae-mi (Jeon Jong-seo), una vecchia amica di infanzia che si diletta nella Pantomima. Tra i due scatta immediatamente una scintilla che poi resta attenuata, stabile ma affievolita, come in una teca di vetro le cui pareti iniziano a scottare solo dopo molto tempo. Di ritorno da un viaggio in Africa, infatti, Hae-mi ricompare solo alcune settimane dopo accompagnata da Ben (Steven Yeun, il Glenn di The Walking Dead), facoltoso giovane di bella presenza che finirà per oscurare in certi momenti l’infatuazione di Jong-su per la stessa Hae-mi.
Da questo momento, e per tutta la fase centrale del film, i tre personaggi diventano inseparabili, finché un segreto – “Io, a volte, brucio serre” – stravolge le dinamiche del racconto e scatena un thriller ossessivo che si spoglia lentamente, rivelando la presenza di elementi che fino alla fine sembrano invisibili.
In questo suggestivo racconto di introspezione quasi crudele, c’è una forma di estraniazione – con cui il protagonista cerca di guardarsi dall’esterno – che prende vita nei momenti più fisici della narrazione, esattamente come i sapori di cui Hae-mi parla sbucciando i suoi “mandarini invisibili”: non è talento – ci dice – si tratta di dimenticare piuttosto la non-esistenza delle cose. E le cose che non esistono, alle volte, sono quelle che percepiamo proprio come fondamentali a ridefinire i nostri stessi contorni.
Dal punto di vista stilistico, infatti, pesano con un ruolo fondamentale i lunghi silenzi e una fotografia che si concentra sulla fisicità non dei corpi ma degli spazi, non delle azioni ma delle riprese, dove gli oggetti di una quotidianità ostentata ma non vissuta (non davanti alla cinepresa almeno) affollano le inquadrature e ci sovrastano, come quelli in cui temiamo di inciampare durante la visione o come i tetti delle serre che ci sembra di sentire sulla testa. Tra questi, poi, anche i tramonti dipinti di rosso contro la figura in ombra della ragazza restituiscono l’angoscia che cala su un altro giorno in cui continuiamo ad essere affamati, affamati di vita e di un senso che non riusciamo ad afferrare. È, per certi aspetti, anche la metafora dello scrittore stesso, paralizzato sulla pagina vuota dalla sua stessa aspirazione.
E nel racconto che abbiamo davanti Ben – la cui figura subentra dopo e poi occupa la scena fino alla fine – è l’ambizione, tutto ciò che Jong-su vorrebbe raggiungere ma che, alla fine, distrugge perché terrorizzato. È il Grande Gatsby, attraente ed evanescente, altro elemento caro a Murakami che lo cita anche nella sua opera più introspettiva, Norwegian Wood (1987).
In questo film che ha tutti gli elementi più cari allo scrittore giapponese, infatti, lo scritto originale si rivela essere un bozzolo da cui possono essere estratti, estesi e ulteriormente dilatati patterns narrativi che, riempiendo l’opera cinematografica di situazioni e personaggi inesistenti nella versione letteraria così trasformata, mettono in evidenza un unico leitmotiv: siamo soli. Prendiamo fuoco nell’azione, bruciamo per pochi istanti e poi spariamo come cenere nella grandezza di un mondo che continua a restarci estraneo.