Oggi voglio parlarvi dell’ultima fatica di Quentin Tarantino e di ciò che davvero rappresenta: il suo ottavo film C’era una volta a… Hollywood, uscito nelle sale italiane il 18 settembre. Nell’articolo ci sarà uno spoiler, lettore avvisato mezzo salvato!
Se volessimo raccontare in una frase C’era una volta a… Hollywood, potremmo riassumerlo come la storia di un gruppo di attori nella Los Angeles del 1969. Sicuramente, però, è molto più di questo, a partire dalla sua natura meta-cinematografica. Per questo motivo le riflessioni possono essere innumerevoli.
A tratti parodicamente dissacrante, a tratti lucidamente cinico, Tarantino ci mostra il periodo d’oro di Hollywood (o, perlomeno, quello che secondo lui è stato tale). Per tutta la sua durata, la pellicola ci presenta due storie che si sviluppano in parallelo, sfiorandosi a malapena: quella, che nel film è preponderante, dell’attore in declino Rick Dalton e della sua controfigura Cliff Booth (interpretati rispettivamente da Leonardo Di Caprio e Brad Pitt) e quella apparentemente secondaria della bellissima ed “eterea” (per usare le parole del regista) SharonTate (Margot Robbie nel film). Ciò che fa da punto di congiunzione fra i due racconti è il fatto che siano vicini di casa. Troviamo anche una terza linea narrativa, inizialmente in sordina e solo successivamente ricongiuntasi agli altri due percorsi: quella di un gruppo di giovani ragazzi che vaga per le strade di Los Angeles e che vive in una sorta di comunità (che poi altro non è che la setta di Manson).
Sharon Tate era una stella della Hollywood anni Sessanta, seconda moglie del regista polacco Roman Polanski. Il 9 agosto del 1969 viene uccisa dalla setta di Charles Manson: era all’ottavo mese di gravidanza. Tarantino ha dichiarato di essersi innamorato di lei mentre conduceva ricerche sulla sua vita, di lei che era «fonte di bontà e gentilezza», come egli stesso ha dichiarato dopo aver parlato con i suoi amici.
Il film si rivela dunque una grande dichiarazione d’amore nei confronti di Sharon Tate che, in una climax ascendente della durata di 2 ore e 40 minuti circa, viene esplicitata solo nel finale. È proprio in quel 161esimo minuto che tutto ciò che avevo visto, ogni scena, ogni pezzo del puzzle, si è incastrato acquistando un senso.
E se Sharon avesse davvero avuto un vicino? E se quel vicino, insieme alla sua controfigura, fosse stato in casa il 9 agosto 1969? E se i ragazzi di Manson avessero incontrato e attaccato prima loro? E se Rick e Cliff li avessero bloccati, certo in modi rocamboleschi alla Tarantino, e avessero successivamente chiamato la polizia? Allora Sharon Tate sarebbe viva.
C’era una volta a Hollywood Sharon, e forse – in un mondo parallelo – c’è ancora.