Saviano personaggio amato, temuto, criticato, parodiato. Perché scrivere di Saviano? Ovviamente il momento politico che stiamo vivendo, che vede il giornalista quasi come l’unico “capo di un’opposizione” credibile, mi ha spinto a farmi qualche domanda su chi sia quest’uomo ma soprattutto sul perché sia stato così grandemente criticato.
Questioni politiche a parte, la maggior parte del lavoro di Roberto Saviano si concentra su una tematica di cui ancora in Italia si parla sottovoce: la Mafia. Mi sono resa conto che sapevo (e so) davvero poco sulle questioni che hanno portato Saviano a vivere da 10 anni sotto scorta, ma soprattutto, avendolo sempre considerato una sorta di martire, quello che mi sarebbe interessato capire è perché tanto spesso la gente ce l’ha con lui. Così ho iniziato una ricerca, come faccio sempre, in modo molto soft ed essendo un personaggio pubblico ho cercato qualche documentario sulla sua storia. Con mia grande gioia, Netflix ha appena aggiunto in catalogo uno dei miei adorati documentari condotto da Pif in cui viene intervistato Roberto Saviano.
La puntata mantiene un tono colloquiale e semplice e descrive a grandi linee la gravità di una vita sotto scorta. Mentre nella sua quotidianità arranca e mal tollera le complessità che la sua delicata situazione comporta, Saviano continua le sue battaglie, continua a parlare di mafia, sia nei suoi articoli che nei suoi libri, che in televisione. Lo scorso anno infatti sono andate in onda su Discovery 4 puntate di una docu-serie condotta da Roberto Saviano intitolata Kings of Crime. Data la mia totale ignoranza in materia, ho deciso di affrontarne la visione pensando che avrei assistito a una sorta di webinar sulla mafia, ma in realtà devo dire che al termine della visione mi sono sentita sì più istruita ma non più appesantita. La mini-serie vede 3 episodi strutturati come una lezione frontale agli studenti dell’Università di Bologna e una invece è un’intervista a volto coperto ad un uomo chiave del clan dei Di Lauro: Maurizio Prestieri. La cosa che trovo più avvincente in queste storie narrate dalla sapiente interpretazione del giornalista, è quell’aspetto che Hannah Arendt chiamerebbe “La banalità del male”. Tutte le vicende narrate sono degne trame dei più avvincenti gialli, delle storie che sembrano richiedere degli uomini acuti, brillanti, assolutamente calcolatori e scaltri. Le persone che ci si trova di fronte, tratto tanto più evidente nella puntata in cui il boss prende la parola in prima persona, sono individui semplici, poco istruiti o previdenti.
Persone che hanno fatto del male, ma con una leggerezza ineffabile, protetti dall’assenza di una struttura morale, spinti da un ideale il cui vero credo viene a perdersi nel corso delle loro vite. In questo senso è interessante capire come tanto male sia stato compiuto, ma senza che fosse macchinato da una mente malata votata al male, quanto piuttosto sia derivato da un’assenza di conoscenza del bene, da una realtà sociale che ha abbandonato queste persone, che tutto ciò che hanno sempre conosciuto è stata la violenza e hanno creduto che quella fosse la giustizia.
Alla fine della visione allora mi sono ancora trovata a ragionare sul perché tante persone ancora oggi ostentino ostilità verso Roberto Saviano che in realtà sta facendo una denuncia molto semplice, una denuncia che tutto sommato è condivisibile e cioè che una delle più importanti piaghe del nostro Paese si basa sostanzialmente sull’assenza di un’alternativa, un’alternativa che dovrebbe essere garantita in ogni democrazia.
Francesca Maria Poletti