Non siamo nell’era digitale della musica, per quanto sia questo il pensiero preponderante. Siamo in un contesto ibrido, in cui i confini tra fisico e digitale sono labili e il mercato discografico si diverte ad approfittare dell’approccio nostalgico degli acquirenti, che sono tornati a comprare vinili e cassette in una tendenza che valorizza tutto ciò che è vintage.
I consumatori risultano, così, ben targettizzati, dividendosi tra gli appassionati che sono disposti a spendere una somma maggiore per avere un’esperienza d’ascolto completa, e il pubblico più distratto o meno interessato, che si “accontenta” della straordinaria offerta di piattaforme musicali come Spotify, Apple Music o Amazon Music. Queste ultime, nello specifico, contribuiscono a creare delle personas, raccogliendo ed analizzando un’incredibile quantità di dati, da cui emergono abitudini di ascolto e gusti ben precisi, da tenere in considerazione in vista delle varie campagne di marketing. Si tratta quindi di abitudini e gusti che sono chiaramente cambiati rispetto al secolo scorso o anche in confronto ai primi anni Duemila.
“Ogni giorno scopro nuovi dischi bellissimi che non riesco ad approfondire perché ogni giorno spunta nuova gente seguita da un sacco di gente che ha fatto un nuovo disco bellissimo”. Con queste parole, presenti nel brano “Attenti al loop”, si presentava nel 2020 alla giuria di XFactor Italia N.A.I.P., acronimo che sta per “Nessun artista in particolare”. Una critica, avanzata con un tocco grottesco di sarcasmo, al mondo musicale degli ultimi decenni, dove le etichette costringono gli artisti a un’altissima produttività che frena lo spirito creativo da cui l’arte dovrebbe nascere e le piattaforme contribuiscono a dare voce – per fortuna – a chiunque, senza limiti.
Da un lato, musicisti e cantanti si sentono sopraffatti dalle regole del mercato al punto da scegliere di prendersi delle pause, fondamentali anche per salvaguardare la propria salute mentale, come è successo, di recente, con l’artista italiano Sangiovanni. Dall’altro, l’allargamento delle possibilità di espressione che l’avvento delle piattaforme pone i prodotti creativi e culturali in una condizione di sovraccarico da cui qualcuno viene necessariamente penalizzato.
Tuttavia, non possiamo negare che applicazioni come Spotify hanno reso attuabile un avvicinamento tra l’artista e l’ascoltatore, che ora ha a portata di click un patrimonio musicale inestimabile. Se pensiamo che qualche anno fa, per poter riascoltare liberamente un brano, l’unica soluzione era registrarlo non appena si aveva l’occasione fortuita di sentirlo passare in radio, c’è da sentirsi dei privilegiati. Ai tempi, venivano fuori frammenti tagliati male di canzoni che non si aveva fatto in tempo ad ascoltare dall’inizio, non riuscendo a cogliere l’attimo esatto in cui la programmazione radiofonica lasciava spazio al proprio cantante del cuore. Le cassette, protagoniste assolute di una generazione, diventavano così bizzarri collage musicali, ad accompagnare il giradischi che gracchiava e i 45 giri di cui cambiare il lato dopo soli quattro minuti.
Forse la magia della musica di una volta non esiste più, ma, in cambio, l’ascoltatore ha un grandissimo potere, che difficilmente baratterebbe con le difficoltà di un passato privo delle tecnologie più moderne. Per chi non può fare a meno di portarsi le proprie canzoni ovunque vada, le piattaforme sono una salvezza, nonostante i singoli si siano moltiplicati a discapito di progetti complessi come gli album.
I consumatori hanno la netta sensazione di possedere la propria musica e non c’è migliore consapevolezza, per un appassionato, di poterne usufruire in qualsiasi momento della giornata, anche senza una connessione Internet.
Chiara Trio
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