“La coda del 2023 e l’inizio del 2024 insegnano una cosa sola e molto precisa: i social sono pericolosi. La cattiva informazione è pericolosa. La superficialità è pericolosa. La distanza tra l’altare e la polvere è un nanosecondo”. Sono le parole della figlia di Giovanna Pedretti, la ristoratrice cinquantanovenne il cui corpo è stato trovato senza vita nel fiume Lambro il 14 gennaio scorso.
Secondo gli inquirenti, ci sono pochi dubbi: si tratterebbe di un suicidio, le cui ragioni potrebbero celarsi dietro la bufera mediatica che si è scatenata in seguito a una recensione negativa sul web a cui la donna aveva risposto.
Uno screen pubblicato sulla pagina Facebook del ristorante “Le Vignole” a Sant’Angelo Lodigiano mostra il commento di un cliente, il cui nome è stato cancellato, che ha così raccontato la sua esperienza nel locale: “Mi hanno messo a mangiare di fianco a dei gay, non mi sono accorto subito perché sono stati composti. C’era anche un ragazzo in carrozzina che mangiava con difficoltà… mi spiace ma non mi sono sentito a mio agio. Peccato perché la pizza era eccellente e il dolce ottimo, ma non andrò più”. Nell’immagine, si legge anche la risposta di Pedretti, nella quale la proprietaria de “Le Vignole” definisce le uscite infelici del cliente “bassezze umane”, pregandolo di non tornare più e soffermandosi sull’inclusività della sua pizzeria.
Lo screenshot, però, ha un font diverso rispetto a quello di Google Recensioni. È a questo punto che qualcuno sui social grida allo scandalo. Tra questi, Selvaggia Lucarelli, opinionista e blogger, che parla di “un’operazione di marketing spacciata per eroica difesa di gay e disabili”, sostenendo il compagno Lorenzo Biagiarelli, che, per scoprirne di più sullo screenshot ritenuto falso, chiama Pedretti e riporta la conversazione sul suo profilo X. La ristoratrice viene raggiunta fuori dal suo locale anche da un giornalista del Tg3, che, con domande insistenti, cerca di metterla in crisi. Il giorno successivo la donna viene trovata morta.
Storie simili (fortunatamente non sempre con un finale così estremo) si ripetono quotidianamente, nel tritacarne social che ci riguarda tutti. È degli ultimi mesi la vicenda di Ekla Vasconi, titolare del ristorante “Rigoletto” a Mantova, sommersa dalle critiche sul suo profilo Instagram e su quello del suo locale dopo la partecipazione al programma condotto da Alessandro Borghese “Quattro Ristoranti”. A causa dei pesanti commenti riferiti al suo atteggiamento particolarmente competitivo durante le registrazioni e degli insulti rivolti anche al figlio, la donna si è vista costretta a chiudere i social, nel bel mezzo di uno “sconvolgimento psicologico ed emotivo” che non la faceva dormire la notte. Sembrava che finalmente si fosse imparata la lezione dopo la morte di Giovanna Pedretti e invece la gogna social pare essere una sorta di trend, un’abitudine scontata e difficile da eliminare, l’assoluta normalità nel momento in cui si frequentano i contesti mediatici.
Se la democrazia è libertà, il potere dei social non è democratico. Si presenta come tale, ma finisce per zittire voci e tagliare vite, in una dittatura verbale in cui essere se stessi o compiere errori è proibito, pena una valanga di attacchi persino da utenti che scelgono di non far apparire il loro nome e il loro aspetto reale sui loro profili, per nascondersi bene e sentirsi potenti. I social network sono pieni di giudici e i processi avvengono, ormai, online. Via i tribunali, via le sentenze, via le udienze: ci pensano gli user di X, Instagram e Tik Tok a emettere condanne. La legge dei social, d’altronde, ammette anche la pena capitale, quando necessaria. Al di fuori di ogni idea di civiltà e di rispetto, in un regime dove la libertà d’opinione, nonostante le apparenze, non esiste.
Chiara Trio
